Luca Giordano per il Salotto degli ultimi 18 whisky del 20 dicembre

Logo Salotto 18 whiskyLo scorso 20 dicembre il Salotto Letterario è stato particolarmente interessante. La solitudine è un argomento universale. Ha fatto emergere da ciascuno qualcosa per tutti. Mi sono chiesto quale fosse il senso di un incontro come questo. Credo che vada ricercato nel fatto che ciascuno si è messo negli occhi dell’altro anche per un istante. Uno degli argomenti è stato considerare l’individualismo come contraltare alla solitudine. Osservando come la solitudine sia un frutto storico dello sviluppo dell’individuo al centro dell’interesse della società. Ma il libro della Genesi ci suggerisce che “non è bene che l’uomo sia solo”, oggi noi sappiamo che in quel “uomo” ci sono tutti gli individui, donne uomini e quant’altro. Credo infatti che, se l’individualismo è stata una vocazione dell’Occidente, un altro sentimento è nelle sue corde: la possibilità di identificazione dell’altro. Questo esercizio ci manca, perché il mezzo attraverso il quale ora si comunica è freddo, con una comunicazione social passano informazioni, affermazioni, ma non un sentimento, perché i segnali che ci permettono di identificarci negli altri sono lo sguardo, i movimenti, la postura, il tono della voce, e molte altre cose che si potrebbero elencare. Noi vogliamo essere ascoltati ma non solo per l’informazione che trasmettiamo ma per quello che noi siamo, che non è sintetizzabile in un mezzo elettronico che, per quanto intelligente esso possa essere, rimane sempre artificiale quindi parziale. Credo che tanta rabbia che percepiamo nel nostro tempo sia la mancanza di questo scambio. Ecco una cosa che abbiamo capito dall’inizio di questo salotto, il segreto è ascoltarsi, l’identificazione nell’altro ci chiede di non essere prolissi. È un esercizio di convivenza che combatte la cosa più pericolosa: l’egocentrismo sfrenato. I mass-media per risultare sempre interessanti, sono forzati a trasformare ogni dialogo in un litigio, ogni problema in un dramma, ogni sentimento in un gioco. Questo va bene per un po’, ma poi quando sale una nuova generazione che si deve chiedere che senso hanno le cose, messa davanti alla propria finitezza si trova senza argomenti, perché la propria fine è una cosa seria. La serietà però ha un difetto, non si sopporta se trasmessa da un mezzo freddo, e i mass-media sono un mezzo freddo. La letteratura è il luogo dove questo desiderio di serietà viene scaricato. Soprattutto la letteratura poetica e, in quella poetica, la parte che Pasolini in un articolo del 1962 chiama “la linea orfica della poesia”. Questo ovviamente è il punto di vista di un appassionato di poesia quale io sono. Si è parlato del fascino di una lettera scritta a mano e pur sentendo fortemente questo fascino, penso che si possa anche scrivere e trasmettere cose profonde importanti attraverso mezzi elettronici, e questo è un tentativo. Per quanto riguarda l’errore ortografico mi sembra una mancanza di rispetto verso chi legge, come buttare lì dei pensieri senza avere cura di facilitare la comprensione. Per il prossimo Salotto Livia ci ha proposto “Cosa ci rende davvero liberi?” Ho chiesto a Valeria di aggiungere anche un verso celeberrimo del 26º canto dell’inferno di Dante: “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” un po’ suggerisce la risposta, ma non siamo a scuola per fortuna. Proposta di dialogo: libertà è un’altra parola, come solitudine, che ha accumulato in sé molti significati. Essa, come individualismo e solitudine fa parte del lessico moderno e contemporaneo. Di libertà si è cominciato a parlare quando si sono risolti altri problemi: fame, mortalità infantile, malattia. La libertà è un accessorio della civiltà, la prima libertà è quella dal bisogno. La libertà quindi va di pari passo con la tecnologia che ci permette di non essere costretti a pensare continuamente alla nostra sussistenza. La liberta, pertanto, è stata appannaggio di un élite che ha gestito il potere, trovando alcun soluzioni: il mondo antico ha avuto la schiavitù, il mondo moderno ha avuto la servitù e le masse di lavoratori, noi abbiamo la tecnologia. Qui si manifesta un paradosso che vorrei esplicitare facendo un esempio: in Italia ci sono moltissime persone anziane, queste persone dovrebbero essere al massimo grado libere, dovrebbero poter vivere della propria pensione e non dover pensare a lavorare per la propria sussistenza. Questi anziani li troviamo sempre di più chiusi in istituti, luoghi dove la libertà è negata, dove a seconda delle difficoltà fisiche queste persone vengono relegate in un letto, in una stanza come se fossero in prigione. C’è un inganno, c’è un meccanismo che tramite una coercizione riporta il plusvalore a chi ha il potere, in questo caso lo fa tramite i proprietari delle cliniche dove questi anziani sono chiusi. L’analisi più approfondita riguardo a questo fatto è stata studiata da Michel Foucault (cfr M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli – 2004). Per venire a un concetto più accessibile si potrebbe dire che il nuovo potere cerca di dominare gli uomini attraverso il loro corpo, gestendo i loro bisogni, dirigendo la società in modo da ottenerne il massimo vantaggio. E qui viene da chiedersi: noi siamo liberi? Per capirlo potremmo ragionare per contrapposizione: cos’è che teme di più chi vuole privarci della libertà, chi vuole renderci schiavi del nostro corpo attraverso la gestione dei nostri bisogni? Una di queste cose è la cultura, la capacità di capire il mondo e di capire cosa è bene per noi stessi. Sempre di più coloro che negano la libertà, dai dittatori ai politici populisti che gestiscono la libertà spostando l’opinione delle persone, sono governanti che non fanno il bene delle proprie nazioni, eppure esse, liberamente, li scelgono. Perché a Putin si può dire tutto ma in Russia è molto amato, ma i russi potrebbero vivere in pace e in prosperità se solo sfruttassero le loro risorse in maniera oculata distribuendo ricchezza, invece si fanno trascinare in una guerra. Anche le stesse popolazioni occidentali finiscono per votare e portare al potere persone che non fanno il loro bene. Se ciascuno sapesse riconoscere il bene, sarebbe la rovina politica di queste persone. Perché anche dittatori hanno bisogno di un consenso. La capacità di capire i propri bisogni dipende anche dalla capacità di esprimersi, di conoscere, di capire. La scuola di tutto questo potrebbe essere la letteratura. Tanto più ci sappiamo esprimere con chiarezza, tanto più sappiamo riconoscere il nostro bene, e il bene di ogni persona è legato a quello degli altri perché siamo esseri relazionali. Liberi si è se si conosce e se si è liberi di conoscere ancora di più, ma la conoscenza è anche la percezione della bellezza la libertà di poterla contemplare senza che i nostri pensieri siano schiacciati da falsi bisogni. Qui si spiega la fuga nel deserto dei monaci, che cercarono la libertà nella privazione, nella liberazione dal bisogno, non facendosi dettare l’agenda da qualcun altro, o da qualcos’altro, che non sia la propria anima. La coscienza chiara di sé la si può raggiungere con un altro grado di finezza culturale, o con la deprivazione, cioè nei poveri, io l’ho trovata nel carcere. Persone private della loro libertà si trovano avere la coscienza che i bisogni sono altri: la famiglia gli affetti gli amori, fare qualcosa di bello, vedere qualcosa di bello. L’uomo ha la fortuna di poter essere l’unico a determinare ciò che vuole o non vuole fare. Concluderei con questa poesia di un poeta inglese, utilizzata da Mandela, resa famosa nel celeberrimo film che ha lo stesso titolo della poesia: Invictus.  Dal profondo della notte che mi avvolge, buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro, ringrazio gli dei chiunque essi siano per l’indomabile anima mia Nella feroce morsa delle circostanze non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia. Sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo è sanguinante, ma indomito. Oltre questo luogo di collera e lacrime incombe solo l’Orrore delle ombre, eppure la minaccia degli anni mi trova, e mi troverà, senza paura. Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Io sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima. William Ernest Henley, 23 agosto 1849 – 11 luglio 1903.   https://www.open.online/2019/04/27/sono-il-capitano-della-mia-anima-la-poesia-che-accompagno-nelson-mandela-durante-la-sua-prigionia/ questo è il link dove ho estratto il testo della poesia, ho lasciato anche il commento preso dal sito per maggior chiarezza. Ma in quegli anni di prigionia Mandela ha un compagno di reclusione speciale, un amico vicino che lo accompagna in quelle sofferenze: è William Ernest Henley. Il poeta e scrittore britannico, morto nel 1903, condivideva con Mandela una vita fatta di stenti e una forza d’animo fuori dal comune, una forza che Henley riversò in un poema che diventò non solo il riassunto della sua esistenza, ma anche il conforto del futuro presidente sudafricano durante gli anni passati nella cella di Robben Island. «Sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima», sono questi i versi della poesia che accompagnano la reclusione di “Madiba” – era il nomignolo con cui era noto Mandela – a pochi chilometri da Città del Capo. Un inno alla resilienza dello spirito umano impressa da Henley in sedici versi durante la sua permanenza in ospedale nel 1875. A 12 anni Henley deve convivere con una tubercolosi che non gli dà scampo, tanto da portarlo in giovane età all’amputazione di una gamba. Con un arto in meno Henley riesce comunque a continuare gli studi e a trasferirsi a Londra dove inizia a lavorare come giornalista. Ma la malattia non gli dà tregua, i giorni in ospedale sono tanti, e anche il piede destro rischia di venire amputato, ma Henley si oppone e decide di sottoporsi a delle cure sperimentali che, dopo tre anni in ospedale, gli permettono di continuare la sua vita. In quella Invictus, Henley sembra mettere tutto l’amore che ha per la vita e la credenza che lo spirito umano vinca su tutto. Un mantra che Mandela ripete tutti i giorni dalla sua cella in Sudafrica, mentre guarda al di là delle sbarre che per 27 anni ne limitano il corpo, ma non ne contengono lo spirito.