Da: L’azzardo dei confini

L’azzardo dei confini

Parliamone. Non ti pensare
che le cose più belle vengano fuori
da quei giardini in fiore.
I profumi più intensi
di solito respiri
sulle pianure incolte;
rimaste abbandonate.
È là che si sprigiona
la coscienza di esistere,
l’azzardo dei confini.
Ricordati le strade
che sortiscono i silenzi dei fossati
fattisi piste
per i ragazzi allegri del paese.
I viottoli che vanno lungo gli argini
a immettersi tra il folto dei canneti
ad ascoltare i cori di cicale.
O meglio ancora l’azzurro che divora
il chiasso dei mortali.
Là sentirai più schietto
del chioccolio lo scorrere dell’acqua
tra il verde profumato d’abbandono.
Là delle contrastate ambizioni
tutt’a un tratto svanisce lo sfronto,
e spetta anche a noi una fetta di mistero
tra il silenzio degli ulivi.
Credimi, in questi momenti,
dove le immagini si lasciano afferrare
come disposte a svelare
il loro sottile legame,
quasi quasi ci sembra di carpire
la debolezza del cielo,
l’errore umano commesso dal divino.
E l’occhio trasmette
i minuti schizzi all’anima che li assorbe
al variare dei tocchi appena è sera.
È qui che il silenzio ci dice
quanto l’ombre degli uomini
si allunghino all’umano degli dei.
Ma quanto brevi i ritorni
ad indagare il senso. È il bagliore
che torna accecante a sommergere
il filo di luce
che demarca i confini.
E squilla forte il sole
per nascondere
i brevi acuti che ci fanno inquieti.
07/08/2000

 

E tutto scorre

E tutto scorre portandosi dietro
il dolore, la gioia, il bene, il male,
i lampi superbi dei cieli di luglio,
il bell’azzurro incline a farsi intenso
tra i rami appassiti di un tenero autunno.
E scorrono così rapide le stagioni
che nemmeno ti accorgi
di quando sia giunta o dove sia andata
l’antica primavera. Ti resta soltanto
un’immagine vaga dentro l’anima
che ruffola e tenta di farsi intendere
per dire che esiste.
Che cosa sia vero, poi, non sai più:
o se la vita reale che ogni giorno
consumi senza rendertene conto
o quel bel senso di malinconia
che ti è compagno
in questa ricordanza. E tutto scorre.
Odi gorgogli dall’acqua di un fiume
che non tiene il presente; il chioccolio
è il fremito di un gorgo trascorso
che già vede il mare.
Ne rifrange gli svoli, le chiome dei pini;
il suo futuro è là col suo passato:
e il divenire continua nel vasto
mistero che torna sorgente.
12/03/2002

 

Insieme a Siena

Andammo a Siena quel giorno. Settembre
sospirava i suoi colori Limoges
e proponeva viali decadenti
a noi abbracciati ad un’aria serena
che non diceva fine. Poi facemmo
la strada dei colli. I colori di coccio,
intarsiati sui dossi, ci invitavano
a soste di pace. Ci apparve improvviso
Sant’Antimo levato
sulla strada Francigena. Quel tempio
diffondeva tutt’attorno un canto mistico
di preghiera; un coro a cappella,
fra colonne arrossate
dai raggi dei rosoni, penetrava
nei nostri pensieri. Ombre di sera,
diffuse dagli olivi centenari,
e il sole che moriva,
annaffiando di cremisi noi due
che attendevamo la notte. La luna
portò il cielo di perla
al casolare, da cui vedevamo
l’ondeggiare dei colli; e in lontananza
un canto ed un sospiro
che lisciava l’azzurro.
06/05/2005

 

Io venni per cantare

È l’ora che ti lasci, figlio,
e torni alla mia terra: dove il mare
spruzza sapore attorno alle pinete,
dove si rompe il cielo sorridendo
tra i rami degli ulivi; dove il vento
piega la testa ai querci imbizzarrito,
perché vuole incontrare l’infinito
del largo piano arso dal salmastro.
Io venni qui soltanto per cantare
e non certo per rompere le maglie
che tengono il mistero. Io venni qui
per rallegrare gli animi col canto
che m’ispirò l’amore. In compagnia
gridammo lampi di gioia, ci amammo,
dimenticando la terra nutrice,
dimenticando la nostra venuta
ed il suo fine. È l’ora che ti lasci;
la mia terra mi chiama: del suo volto
in mente porto il biondo girasole,
gli spazi aperti rotti dai pensieri,
il rosa del suo pesco,
il refolo di un cielo
nato per raccontare ai fusti annosi
di antiche primavere. È qui che torno;
è qui che abbraccerò con mani scheletrite
le zolle dei miei avi. E se ti lascio,
donerò a te il mio mondoin cui vissi straniero
soltanto per cantare.
08/12/2006

 

Mi prendeva per mano mio fratello

Mi prendeva per mano mio fratello
e mi portava con sé dagli amici.
Lui ventenne
ed io sbarbato di appena nove anni.
Mi guardava con occhi melanconici
come per dirmi:
“Stai tranquillo, non finisce qui:
anche noi avremo casa.”.
Sì, perché, dove abitavamo,
era una stanza sola,
senza intonaco,
dai cui buchi
sbucavan pipistrelli
che noi colpivamo a guancialate.
Ma un gran vantaggio c’era.
Da un’apertura ampia
usciva per l’inverno
il bel caldo della stalla.
Mi guardava con occhi melanconici
mio fratello; lui soffriva per me.
Ma dal suo sguardo sortiva l’orgoglio
di vincere la vita. Ora l’amo,
come si amano gli assenti.
Spesso ritorno triste a quella casa,
dove il sole
parla ancora di luce esuberante
sulle foglie ormai ingiallite delle vigne.
E mi chiedo perché
l’animo umano non sia poi tanto grande
da contenere tutto questo amore.
04/08/2009 h. 12,15

 

Pisa

Dai campi in fiore dove scorre il Serchio
tra i pini profumati del Tirreno
e poi si spegne, ombreggiare si vede,
o mia città, sulla terra di Golgota
la torre. L’Arno ammira
Santa Maria brillare nei suoi gorghi
speculari alle mura che sul mare
vide possenti contro i Saraceni.
Fu là quel centro dove i Cavalieri
ebbero sede e diedero a Buscheto
e poi a Rinaldo il compito più arduo
con l’oro delle guerre. Caterina
splende in nostrani marmi da romana
e accanto ai Francescani si scolora
per l’umiltà di un tempio consacrato.
Lascio alle rughe i lontani pensieri
e torno spesso all’ultimo tuo sguardo
sopra di me che ascolto scalpitare
i passi in Borgo Stretto. Il campanile
annuncia il mio partire
da studente irrequieto.
E si slarga il pensiero sopra le acque.
Anche se l’Arno volle allontanare
coi suoi detriti sguardi alla marina
che padrona ti volle, ancora geme
col flebile lamento e l’ala ferma
il canto del gabbiano; lungo il fiume
compie il suo corso, ammira i tuoi riflessi
e poi la sera torna a riposare
nascosto al sole che si rompe in mare.
25/02/1993

 

Piazza Santa Caterina

Antichi svoli tra i giganti platani
vibravano cinguettii sulle panchine.
Trasalivano all’apparire di un’ombra
oppure di un raggio o chissà mai
di che cosa facesse trasalire.
I libri sopra il marmomi tenevano in mente
le pagine del giorno.
Piovevano dintorno quelle foglie
come se fosse autunno. Forse lo era.
Si suicidavano a frotte sul selciato
in compagnia delle ambasce dell’anno
e le noie di iniziare la scuola.
Ricorrevo a spezzoni di banane
all’angolo d’inizio Borgo Largo.
Lenivano inquietudini e mestizie
del solito mattino.
Ero lontano dalla mia campagna.
Ritorno spesso a Santa Caterina
davanti a Leopoldo.
Sempre lo stesso. Porto un solo libro
e lo pongo sulla pietra della panca.
Ma la cosa che mi spiace di più
è vedere ridotta la panchina
a una focaccia. Io – e lo può dire -
non l’ho mai maltrattata! Forse un tempo
tentai un nome. Non avevo lapis.
Feci male perché quella mia immagine
per rifarsi mi tortura l’anima.
“Andiamo corpo di carne! Lasciamola
sul marmo e che si sfoghi.
Ti porterò a comprare gli spezzoni
come prima alla solita bottega.
Ti ricordi? Ma tu non hai memoria,
sei solo corpo e l’anima è seduta
laggiù a godersi tutta la sua storia.”.
05/05/1977