Una giornata ordinaria

C’è un momento prima di svegliarsi in cui la coscienza galleggia senza sforzo. Lei che di solito non vive una vita agiata, se ne sta beata, godendosi la sua inconsistenza, guardandosi attorno soddisfatta perché tutto sembra al suo posto, senza nessuna imposizione semplicemente per legge naturale delle cose.
Sarà così il paradiso, un distacco sereno a limite del cosciente, come una luce calda che illumina e non acceca, questo pensò Mario Solimene, mentre se ne stava ancora a letto, resistendo ai messaggi sempre più pressanti della sua vescica, aspettando ostinatamente il suono della sveglia.
Si guardò attorno. Sua moglie dormiva mostrandogli la schiena, in realtà nel buio ne intravedeva solo la sagoma sotto le coperte, e il cappello di lana bianca che sua moglie si toglieva solo a primavera inoltrata. Riusciva appena a distinguerla, stante così le cose, pensò, nel suo letto poteva esserci chiunque. Sorrise alla possibilità di trovarsi un’estranea vicina, una sorta di roulette russa sentimentale, ti addormenti la sera con tua moglie accanto e ti svegli il giorno dopo con un’altra donna affianco, una perfetta sconosciuta poi, si girò distratto verso la sveglia e il panico gli smorzò ogni sorriso.
Saltò dal letto. La sveglia silenziosa pulsava a intermittenza, mansueta, imperturbabile, come una mucca al pascolo. Segnava le 2:45, il tempo che era trascorso da quando era tornata l’energia elettrica. Maledetta tecnologia, ti lusinga con il sogno di una vita comoda e poi ti lascia nella merda all’improvviso. Si alzò in preda all’ansia, con il presentimento di essersi svegliato in ritardo. Hanno voglia di dire che il tempo non esiste, pensò Mario mentre cercava le pantofole che, come sempre in questi casi, congiuravano già alle sue spalle, hanno voglia di dire che è solo una sciocca convenzione, se lavori in fabbrica e timbri il cartellino e sposi questa tesi finisci in un niente in mezzo a una strada. Corse in cucina, alzò le tapparelle perché il neon ci metteva troppo tempo a prendere vigore, guardò l’orologio con il terrore che gli sfocava la vista, neanche dovesse leggere, lì impresso nel quadrante, il giorno infausto della sua morte. Erano le 6:15.
Si sedette stremato, le gambe ancora gli tremavano, l’adrenalina svaporò in un rutto che sapeva di pericolo scampato, respirò a fondo, per fortuna si era svegliato a tempo anzi, si era perso altri 15 minuti di beata innocenza.
Si preparò allora il caffè lentamente come per vendicarsi del tempo e dei suoi assilli, accese la televisione, almeno avrebbe avuto la possibilità di ascoltare con calma le notizie al telegiornale. Fuori, il cielo era ancora senza luce e senza contorni, un pozzo senza fondo in cui la luna e le stelle s’erano ormai perse, tutt’intorno, le sagome severe dei palazzi, le tapparelle chiuse come occhi serrati, attendevano il segnale per svegliarsi tutti insieme, all’unisono.
6:30 iniziava ufficialmente la giornata. Si era speso i 15 minuti di abbuono, aveva oziato come se fosse stata domenica, aveva ascoltato il caffè borbottare, l’aveva sentito salire lentamente, come un vecchio macilento, poi uscire arzillo schiumando dalla cannula, aveva indugiato girando il cucchiaino nella tazza fino a sciogliere totalmente lo zucchero di canna, adesso però si faceva sul serio, il cronometro era partito, pronti, via, non c’era da perdere altro tempo.
Quindici minuti per la doccia, dieci per vestirsi, altri dieci per risvegliare la moglie dal coma profondo in cui cadeva per tutta la nottata, cinque minuti per raggiungere la fermata, un minuto per comprare il giornale, il pullman passava alle 7:15, trentacinque minuti di viaggio, poi il colpo di reni finale, timbro cartellino alle 8:00 in punto.
Quel giorno la moglie stentò più del solito a svegliarsi, lui nonostante la frenesia che montava rapida, la scosse con riguardo, accese la luce sul comodino, la chiamò più volte, un occhio all’orologio e uno a lei che sembrava morta. Respirava invece, nuotava in fondo agli abissi della termo coperta, ignara dei minuti che passavano veloci, minuti di operaio al minimo sindacale, svalutati, di sicuro più esili, di quelli dei comuni mortali. Gli stava scrivendo un biglietto, era arrivato ai saluti, al cuoricino di prassi altrimenti si sarebbe offesa e, invece lei si svegliò.
Mario ebbe un moto di stizza, come se qualcuno gli avesse strappato la tabella di marcia in mille pezzi, abbozzò un saluto frettoloso e si avviò verso la porta.
- Non mi dai neanche un bacio?
- Amore ho fatto tardi, la sveglia non ha suonato…
- E non hai dieci secondi per un bacio?
Messe così le cose non avevano una via di uscita, tornò indietro e le diede un bacio, avrebbe recuperato dopo.
Scese le scale di corsa, con l’ansia che gli fiaccava le forze, doveva sbrigarsi, probabilmente avrebbe dovuto rinunciare al giornale, non c’erano alternative, erano già le 7:05.
Il freddo lo colpì forte, come un pugno in piena faccia. Era ormai giorno, la luce si faceva largo tra nuvole stoppose, pesanti e sfilacciate, minacciava pioggia e lui non aveva con sé l’ombrello.
7:11. Rischiava di perdere il pullman e, lui non poteva permetterselo, quel mese aveva già fatto un giorno di ferie per accompagnare la moglie dal ginecologo. Incominciò a correre come se lo inseguissero, superò perfino due tizi che a quell’ora invece di dormire facevano jogging.
Prese il pullman a volo. Quando si dice la felicità nelle piccole cose.
Trovò anche posto, solo, si dispiacque di non aver comprato il giornale, adesso non sapeva cosa fare, trentacinque minuti di niente, 15 minuti di autostrada, 20 di strada statale costeggiando il mare d’inverno, grigio e rugoso. Bizzarra davvero la vita, pensò, non si ha mai tempo, lo rincorri dappertutto poi, per caso quando te ne avanza un poco, lo spendi tutto per trovare il modo migliore per ammazzarlo.
Il pullman dopo il tratto autostradale imboccò quella che sulla carta è segnata un po’ pomposamente come strada statale, nella realtà invece un budello stretto e pericoloso, senza marciapiedi e senza corsie di emergenza, dove le macchine ti sfrecciano accanto a due centimetri dalla portiera e ogni sorpasso è una scommessa con la sorte.
Si era alzato un vento freddo, il mare gonfio sfogava la sua ira spumosa sugli scogli, la salsedine sfrigolava nell’aria lasciando una patina sui vetri. Ancora venti minuti e sarebbero arrivati.
D’improvviso un colpo sordo infranse il bofonchiare monotono del motore, poi ancora uno e un altro ancora, più metallico, più forte. Il pullman rallentò di botto, continuò ancora un poco d’inerzia poi si fermò del tutto. Mario si destò dai suoi pensieri arrugginiti, d’istinto guardò l’orologio.
Nell’abitacolo si alzò un vociare prima sommesso, poi sempre più allarmato, lì, lottavano tutti contro il tempo, non c’era da scherzare con i fuori programma, i cartellini fremevano per essere timbrati, i capi squadra, i capi sala, i capi dei capi erano al varco, in attesa, pronti a rilevare il più piccolo ritardo, quello era un pullman di pendolari non era certo una comitiva di vacanzieri.
L’autista abbandonò il volante, si alzò lentamente, con passo greve raggiunse il centro del pullman, guardò tutti in silenzio, come un comandante che scruta la sua ciurma dal ponte di comando:
– Abbiamo un problema, penso che si sia rotto un semiasse.
Si scatenò l’inferno. Mille storie s’intrecciarono nell’aria, mille urgenze, mille incombenze batterono disperate contro i vetri, vibrarono nell’aria come pugni tesi, urlarono la loro rabbia, volevano scappare, fuggire, cercare aiuto. A Mario gli si seccò all’istante la gola, pensò al suo capo, ai suoi compagni, agli impegni che aveva quella mattina, uguali a quelli di tutti gli altri giorni, eppure chissà perché, in quel momento, gli parvero inderogabili.
Scesero tutti dal pullman, in preda a una frenesia isterica, i più, misero mano ai cellulari per cercare un passaggio, qualcuno che li andasse a salvare, qualcuno propose di andare a piedi, altri rimasero calmi ai margini della strada e della discussione in attesa che qualcosa capitasse.
Mario non sapeva cosa fare. Guardò l’orologio, le 08:10 era già in ritardo.
Non aveva nessuno da chiamare, c’era poco da pensare. Sua moglie non aveva la patente, suo cognato invece sì ma lui, lo sapeva bene, a quello stronzo non l’avrebbe mai chiamato, i suoi amici più cari invece erano tutti lontano, a uno a uno, finiti in altre città correndo dietro a un lavoro che in nessun modo si voleva far acchiappare, i colleghi poi, a quest’ora erano già tutti a lavoro, da lì non si sarebbero mossi neanche sotto la minaccia delle armi.
Non aveva proprio nessuno da chiamare, non conosceva nessuno, questa era la realtà, almeno nessuno così bene da poterlo chiamare e sperare davvero nel suo aiuto. Lottava contro il tempo per metà del giorno perché quel tempo non era suo, apparteneva a qualcun altro, del suo tempo invece non sapeva cosa farsene, per questo per il resto del giorno si arrendeva senza combattere. Quando faceva il primo turno, usciva da lavoro alle 16:10, il pullman partiva alle 16:30, se non c’erano intoppi per 17:15 era a casa, poi la doccia, quattro chiacchiere automatiche per sconfiggere il silenzio poi, a volte un giro al centro commerciale, la spesa come antidoto alla noia, la cena, poi più niente, solo la luce ipnotica della televisione a impallidire, ogni giorno di più il suo volto. La sua era, una vita piatta, sempre uguale, sopravvissuta a se stessa, andava avanti per inerzia.
Il chiacchiericcio, d’improvviso riprese vigore, Mario distolse i suoi pensieri.
L’autista come ogni buon comandante, non aveva abbandonato la sua nave, non si era dato per vinto, aveva fatto di tutto per salvare la situazione, aveva martellato, svitato, si era insozzato come un maiale, poi arresosi all’evidenza, aveva chiamato in direzione, adesso chiamava a raccolta i passeggeri per informarli sugli ultimi sviluppi.
- Ho fatto di tutto, mi dispiace ma, non abbiamo alternative, dobbiamo aspettare che arrivi il bus sostitutivo.
Altro caos, altre proteste, questa volte più flebili, i più si erano rassegnati, altri avevano trovato soluzioni alternative, solo qualcuno più ostinato cercava di salvare la giornata ottenendo almeno il rimborso del biglietto.
Erano le 9:15. Il pullman sostitutivo sarebbe arrivato dopo almeno 50 minuti, poi ci sarebbero voluti altri 20 minuti per arrivare in fabbrica, avrebbe timbrato non prima delle 10:20. Mario fece una smorfia, come per scacciare un pensiero osceno poi, senza più patemi si guardò intorno. Le macchine sfrecciavano veloci, insensibili, ognuno dietro ad un impegno, il cielo verso nord sembrava rischiararsi, c’era una promessa di luce in fondo all’orizzonte, la campagna selvatica, d’erba e fiori ostinati, cresciuti senza cura e senza aiuto, attaccati alla vita a ogni costo, si legava alla spiaggia in un abbraccio silenzioso.
Quanta vita ci passa sotto gli occhi, pensò Mario mentre scansando i rovi e i sassi, andava verso la spiaggia, quanti dettagli muoiono approssimati, sacrificati all’importanza delle cose inutili, quanto mare ci perdiamo, quanto cielo, quanto vento. Guardò l’orologio per riflesso, senza una vera intenzione, poi ebbe un fremito inseguendo un’idea assurda. Chiamò sua moglie.
- Pronto
- Che stai facendo?
- Mario, che cosa è successo?
- Niente, tranquilla, non ti spaventare, va tutto bene. Il pullman si è rotto, siamo fermi sulla statale.
- E adesso come fai?
- Io? Io non faccio niente, sei tu che devi fare qualcosa, ti aspetto, vieni tu qui, oggi pranziamo fuori.
- Mario ma stai bene? Mi dici cosa è successo?
- Non è successo niente, credimi, va tutto bene. Dai, vieni, vestiti, fatti bella, senza nessuna fretta, tanto io sto qui e non mi muovo, ti aspetto.
Un raggio di sole evase all’improvviso, il cielo ne approfittò subito, si specchiò nelle nuvole che aveva tutto intorno, si trovò bellissimo e gonfiò il petto per l’orgoglio. Dalla strada arrivavano voci concitate, qualcuno ancora non si era rassegnato, Mario respirò a pieni polmoni, tirò un sasso lontano poi, si tolse le scarpe e andò verso il mare.