Il millenarismo di Pier Paolo Pasolini

(riflessione sul film L’operaio dei sogni, di Pio Ciuffarella)

Il Neorealismo artistico e letterario nato nel secondo dopoguerra, entro il solco di una Ricostruzione civile dominata da modelli americani e sovietici a un tempo, prettamente materialistici, ha offerto una testimonianza preziosa della fine della civiltà contadina in nome di un’emancipazione disincantata e senz’anima, incapace di mantenere vivo ogni umanesimo ed ogni autentico senso del vivere comune. Non si può capire la rabbia pasoliniana contro l’omologazione e l’imborghesimento, contro il consumismo e il materialismo dei nostri tempi, se non si tiene a mente questo sacrificio della cultura popolare sull’altare della società di massa dei tempi attuali.
Questo lungometraggio, L’operaio dei sogni di Pio Ciuffarella, non vuole avere e non ha le valenze di un documentario sulla vita di Pasolini, ma di un racconto immaginario teso ad esaltare, nella prima parte la potenza imprescindibile del sogno (un sogno capace di riportare in vita un fantasma), e nella seconda parte, con le scene del Battesimo, la valenza della sacralità della vita e dell’essere. Questo è il realismo di Pier Paolo: un realismo intriso di mistero. Egli parla di un’umanità legata agli elementi, alle radici tradite, alla terra tradita. Le plebi rurali inurbate, le baraccopoli: un’umanità espulsa dall’Eden e imbizzarrita, ma ancora saggia per diritto di nascita e non per cultura acquisita. Un’umanità che viene dal fiume profondo del sacro, dal primordiale amore per la materia, per la mater, tradito purtroppo dal materialismo brutale e balordo che sappiamo.
 Nella piazzetta di Chia, il borgo della Tuscia Viterbese dove Pasolini girò le famose scene del Battesimo di Cristo, rievocate in questo filmato, troviamo oggi un busto bronzeo del notissimo intellettuale, accanto al quale è stata incisa una sua poesia. Ho colto l’informazione sfogliando le pagine del blog letterario di Andrea Mariotti (www.andreamariotti.it), poeta e scrittore presente nel filmato, con un ruolo fondamentale, dove interpreta se stesso. La poesia, Ciants di un muàrt, tradotta in italiano dal friulano e tratta dalla raccolta “La nuova gioventù, suona così:
Contadini di Chia! / Centinaia di anni o un momento fa, / io ero in voi. / Ma oggi che la terra / è abbandonata dal tempo, / voi non siete in me. / Qualcuno / sente un calore nel suo corpo / una forza nel ginocchio… / Chi è? / I giovani sono lontani / e voi non parlate… / Quelli che vanno a Viterbo / o negli Appennini dov’è sempre Estate, / i vecchi, mi assomigliano: / ma quelli che voltano le spalle, / Dio, /e vanno verso un altro luogo…Dio, / lasciano la casa agli uccelli, / lasciano il campo ai vermi, lasciano seccare la vasca del letame, / lasciano i tetti alla tempesta, / lasciano l’acciottolato all’erba, / e vanno via / e là dov’erano / non resta neanche il loro silenzio…”.
Un vincolo viscerale legava Pasolini alla cultura contadina, ma non si pensi ad un amore nostalgico o passatista. La cultura contadina non è una memoria storica, ma un archetipo: quell’archetipo che lega l’umanità alla Terra Madre e che non appartiene al passato, bensì all’uomo di sempre. Un sentimento di appartenenza al creato che, a prescindere dai modelli di civiltà, dovrebbe essere sempre vivo tra gli uomini. Credo fosse consapevole, Pier Paolo, che non esiste – perché non può esistere – altro tipo di civiltà per gli umani, nati sulla terra e dalla terra. Per cui la fine di quella civiltà non può che corrispondere alla fine della civiltà stessa in assoluto. E ci sono altri versi, tratti da Poesia in forma di rosa, che a questo punto devono essere citati:
Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi  / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli. / Giro per la Tuscolana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più”.
Pasolini – è evidente – in questa poesia parla di “radici”. Parla cioè di qualcosa di vivo, non di morto. La peculiarità delle radici, infatti, è di rinnovarsi in continuazione, altro che passatismo! Quella del poeta è una ribellione nei confronti di una Modernità che si è posta fuori dal Passato e dal Futuro nello stesso tempo. Fuori dalla Vita. Il suo è fondamentalmente un terrestrismo, un’impostazione culturale ancorata a valori contadini, che sono i valori dell’uomo di sempre: “mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più”. Egli amava questa sorta di cultura primordiale, naturale, non appresa sui libri, ma succhiata dagli uomini insieme al latte materno. Una cultura inconscia che viene all’uomo dalla nascita, per il semplice fatto di nascere uomo.
Emblematica in tal senso la dichiarazione che in una nota intervista rilasciò al suo intervistatore. Egli disse: “Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono quelle che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Ma non ci metta della retorica in questa mia affermazione: non lo dico per retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese… è qualcosa che porta sempre della corruzione, delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si ritrova ad un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice”.
Perché questa predilezione per gli analfabeti? che cosa vedeva Pasolini nell’analfabeta? vedeva un essere non ancora imbarbarito dalla cultura, ossia un essere autentico, dotato di una saggezza innata, in grado di renderlo, come Adamo nell’Eden, il custode del creato. Purtroppo, quando si evocano queste visioni equilibrate del mondo e della vita, queste culture elementari, una subdola propaganda tenta di insinuare che si vorrebbe tornare nostalgicamente al passato. E di passatismo è stato più volte tacciato Pasolini, nonostante egli fosse un progressista. Ma il vero problema che qui si pone, anche a prescindere dalla consapevolezza che poteva averne Pasolini, è di riuscire a rinnovare con modalità inedite, adatte ai tempi nuovi e futuri, il patto di alleanza dell’uomo con l’uomo e con il creato intero.
E’ questo, a mio parere, il messaggio che, sulla scorta della poetica pasoliniana, si ricava da L’operaio dei sogni di Pio Ciuffarella. Al di là della storia c’è una cultura originaria e verace che si lascia dimenticare affinché possa venire recuperata: “guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. C’è la sensazione di un’apocalisse, ma anche di una palingenesi. Una visione del mondo che potremmo anche definire millenaristica. Questo aspetto della poetica pasoliniana non va trascurato, e fa bene Pio Ciuffarella a sottolinearlo, avvalendosi della professionalità di un cast di collaboratori straordinario. La passione civile ed etica di Pier Paolo ha tratto forte ispirazione dalla dimensione elementare e sacrale della vita, ribelle verso ogni tipo di artificio storico e di falsificazione culturale.
 
Franco Campegiani