SI AGGIUNGONO VOCI – Sandro Angelucci

Angelucci copertina Sandro Angelucci

Lietocolle Editore, 2014
Alcune poesie Sulla poetica di Sandro Angelucci – Franco Campegiani Sulla poetica di Sandro Angelucci – Franca Alaimo Dalla prefazione di Nazario Pardini Un cammino verso una natura perduta, una terra abbandonata, verso la madre più antica

L’anima della fune resta intatta,/si snoda intorno al mondo/collega gli universi./Niente, nessuno sfugge:/un solo filo/può tenere insieme/la vita con la morte (L’anima della fune). Opera compatta, acchitante, generosa, i cui versi, con euritmica sinfonia, abbracciano gli abbrivi emotivi del Poeta. Divisa in due sottotitoli, Icaro e Il grande respiro, si scioglie in una versificazione da battima marina con il suo andare e venire, col suo alternarsi di misure brevi ad altre più ampie, con le sue sortite in endecasillabi che esplodono in significanti metrici orientati verso marcate interiorizzazioni.

La prima cosa che salta alla mente e all’anima è proprio questa simbiotica fusione fra dire e sentire; fra slanci iperbolici, fra cospirazioni di proteiforme metaforicità e sicurezza del ductus poetico. Uno slancio verso l’ignoto, un odisseico azzardo oltre colonne, oltre quelle siepi che delimitano il nostro essere-ci; e che l’Autore già configura, con proficua resa simbolica, nella copertina: un uomo che, solo, si sperde in una strada senza fine. In una strada brumosa che tanto si avvicina all’inquietudine dell’essere e dell’esistere. A quella dualità fra la nostra terrenità e l’aspirazione all’oltre di memoria pascaliana, un azzardo verso confini di problematica soluzione. Ma anche un approssimarsi schietto e volitivo, sincero e a braccia aperte verso le rivelazioni significanti di Pan. Di un mito che prolunga la sua forza epifanica e misterica in un futuro di luce e di Sole lucente. Un cammino verso una natura perduta, una terra abbandonata, verso la madre più antica, smarrita, tormentata da figli su strade senza sbocchi; un agognato riavvicinamento verso i suoi palpiti mortali; un invito a rigenerarla e a rigenerare l’uomo, farlo nuovo, in un abbraccio che sappia di altri tempi, ma che assuma il valore di novella fusione, di ritrovato amore, amore oblativo, di ritrovato rispetto, per un futuro che parli de reditu suo, dei suoi fecondi tramonti e del suo gioioso respiro, voluto da viandanti ormai sperduti in materialismi senz’anima, ricredutisi per il bene di tutti gli esseri del creato: Saranno i voli/che portano gli insetti dentro i nidi/a dare l’appetito/a chi, da noi,/si aspetta in dote il dono del futuro (Saranno i voli). E quale stagione migliore dell’autunno per concretizzare queste inquietudini tanto esistenziali, quanto fertili per un ricco poema? La stagione dei poeti, delle melanconiche soluzioni umane, delle foglie smeraldo che si fanno memorie, del redde rationem. È questa la stagione di Angelucci, perché è il tempo des feuilles mortes che lo invita alla meditazione sul vivere e il morire; sul destino ed il mistero del nostro limitato soggiorno e su quello della Poesia. Sì, della poesia, questo racconto infinito della vicenda umana, che sa di realtà, d’immaginazione, ma tanto di folgorazioni in voli eterei, in spazi di abbrivi verticali che connotano la pienezza ontologica del Poeta. Quel Poeta che ricorre alla Natura, ai suoi messaggi, alle sue approssimative soluzioni, alle sue cromatiche identificazioni. Ed è ad essa che volge tutto il suo poema, alle sue configurazioni plurime, alla significazione della sua plurivocità, dacché in quei corpi vuole leggere la malinconia delle sottrazioni, o la gioia per gli sperdimenti in tanto naturismo. Di certo, iniziare da questa citazione incipitaria significa andare a fondo nella poesia di Sandro Angelucci. Un prodromico avvio per scoprire il suo canto. Il suo intento di plurale empatia, di creatività contaminante per eufonica sonorità e accostamenti di luci ed ombre, di bianco e nero, di contrapposizioni di memoria eraclitea. Ed il vero della vita sta tutto nella simbiotica fusione degli opposti. Meditazioni che in Angelucci si trasferiscono agilmente dalla soglia del soggetto a quella dell’universo. Perché ognuno di noi si identifica in questo impulso a superare i limiti dell’orizzonte. D’altronde è proprio la simbiotica fusione fra le antinomie del vivere che dà una lucida idea della realtà: No, io non ti condanno./Come potrei? A cosa servirebbe?/Ripetere l’errore/per consumare ancora altro sangue/per giungere ad odiarmi./Meglio ammettere,/una volta per tutte,/che ho le ali, che sono un demone:/solo così posso sentirmi un angelo (Icaro). Una chiara visione di un soggiorno da cui tanto ambiamo sottrarci per elevarci oltre. Ed il poeta lo fa con un volo di generosa levatura, con una apertura d’ali che gli permette di aliare sulle cime innevate, da cui lo sguardo può estendersi verso distanze infinite, ma anche irraggiungibili per il nostro essere mortali. Ed è umano, fortemente umano aspirare all’al di là delle nostre inconsistenze, delle nostre ristrettezze di esseri apodi, coscienti delle labilità e delle precarietà del tempo e del luogo, ma anche spinti dalla nostra superbia a cercare paradisi inesistenti a scapito di un amore più vicino: Proprio quello l’errore: la superbia./Mentre pioveva amore/non accorgersi/che stavi camminando sulla stella/che più desideravi,/e tu, in volo, a cercarla chissà dove,/in quali mondi,/in quali paradisi inesistenti (Icaro). Per il poeta la poesia è verticalità, sostanza umana, affondo intimistico, spiritualità esplorativa, e soprattutto visione di un futuro luminoso, ammesso che poggi su nature rigeneranti di epifanica rivelazione. Un vero affondo nel pozzo del mistero dei meandri dell’anima; è da là che il Nostro, con tutta la sua potenzialità creativa e introspettiva, parte per concretizzare il suo pathos nella metaforicità e nel fonosimbolismo del verso; per configurare i suoi abbrivi emotivi e speculativi nelle esplosioni di panica consistenza che, comunque, non annullano mai l’essere nella loro vivacità visiva o auditiva, ma, anzi, ne rafforzano la valenza. Dacché l’anima, dopo una fuga dalla soma del corpo verso piane rigeneranti, verso colline luminescenti, o tramonti decadenti, rientra carica di vitalità a incrementare un serbatoio da cui attingere Bellezza; sostanza da affidare ad intrecci di narratologia o a commistioni di verbi e contenuti di rara resa poetica. Di parole, nessi, combinazioni fonoprosodiche che abbracciano, con urgente sintonia, gli input emotivi, la grande ascesa delle emozioni. Sì, per Angelucci far poesia significa prima di tutto rovesciarsi sul foglio, ricercare quella verità che si trova fra le pieghe di un mistero che alimenta il poièin. Sta qui il forte impatto con questa silloge; sta nel sorprendersi di fronte all’espansione delle strutture verbali oltre l’etimo al fine di agganciare lo slancio delle intime meditazioni verso i confini vasti della vita.

Nazario Pardini