Cattan Livia – Roma

Nata a Roma, dove vive e abita con la famiglia, si è diplomata presso il Liceo Classico San Giuseppe di Monteverde e laureata in Economia e Commercio presso l’università La Sapienza, di Roma. Attualmente lavora come service manager in una multinazionale italiana di consulenza Informatica. È Presidente dell’associazione culturale A.I.D.A. (associazione dei dipendenti del gruppo nel quale lavora). Nei fine settimana si dedica alle proprie passioni, la lettura e la scrittura e si immerge nel suo mondo di storie e di fantasie. Ama il teatro, i gatti ed è attratta dall’arte in ogni sua forma ed espressione. Vincitrice, finalista e segnalata a diversi premi letterari, ama scrivere soprattutto racconti.

Dal 2023 è socia del circolo IPLAC.

MARE TRANQUILLITATIS 

A.D. 1516

Mi ricordo come fosse ieri di come il destino e la follia di un uomo mi fecero arrivare fin quassù, oltre i confini dell’umana natura, attraverso metalliche vallate e fiumi di ferro, alla ricerca di ciò che si era perso e poi dimenticato.Mi ricordo come fosse ieri lo stupore nel rivedere tutte quelle lacrime versate in nome dell’amore e il tempo perduto, e la fatica per recuperarlo, e la gioia che provai nel ritrovare tutto ciò che abbandonato sulla terra avevo creduto distrutto per sempre, la purezza, l’amore, la virtù, la saggezza.Era quest’ultimo tesoro fra tutti che andavo cercando per restituirlo ad un amico, ad un soldato, ad un Paladino, fu quest’ultima ampolla, la più preziosa, che mi fece perdere la strada del ritorno.Vivo qui da tempo immemore, conosco i fiumi, i laghi, le campagne, le lacrime e le ampolle, sono prigioniero senza catene di un racconto immortale, di un Poeta furioso che scavalcando le dune della terra e del tempo, mi ha costretto ai confini della Luna a guardare per sempre da lontano la Terra che mi generò.Vorrei potervi dire che sulla Luna si sono conservate tutte le cose belle che sulla Terra non vedrete più, il mare pulito, l’amore per la giustizia, per la verità, per il coraggio, per l’onore, il tempo degli ippogrifi e delle grandi imprese.Ma non è così, la luna è uno specchio secco che riflette l’aridità del mondo, e io sono solo un miserabile cavaliere che ha fallito la sua impresa. Vivo nelle pagine svogliate di una storia che nessuno vuole più leggere, nelle rime antiquate di un poema che nessuno vuole più ascoltare, nella voce annoiata di uno studente costretto a raccontarmi.Eppure vorrei poter gridare che io sono esistito, che ero vero, che ero IO, e non un personaggio inutile dal nome originale, di cui nessuno ha più memoria.Vorrei potervi dire che il mondo che ho vissuto era sì imperfetto, rozzo, crudele, ma anche vivo, nuovo, da inventare, vorrei poter accendere i vostri cuori e guidare le vostre anime attraverso i racconti degli amori, delle guerre, della follia, della grazia, della pienezza di cui IO sono stato testimone, sulla Terra e sulla Luna, e fin dentro il cuore di una balena. Ma ahimè, non ho più forza, guardo la Terra e non so come raggiungerla e grido il mio nome e la mia solitudine da quassù, sperduto nelle candide valli lunari.    Eppure, allievi distratti di una vita annoiata, sappiate che IO sono qui, ora, in questo instante, tutto ciò che rimane della grandezza che ha animato il mondo, della sua bellezza, della sua forza, della sua gloria e della sua testimonianza immortale. Che IO sono quello che studiate nei libri, quello che incontrate nei vostri sogni, quello che ricercate nel vostro compagno di banco e nel vostro professore del liceo, che IO sono quello di cui griderete il nome guardando la Luna, quello che immaginerete di poter diventare un giorno, colui a cui vi ostinerete a chiedere soccorso, colui che invocherete nei momenti bui in cui il mondo vi sembrerà un’umida gabbia e la Luna lassù, una palla vuota e pallida.IO sono l’UOMO e vi parlo dalla Luna. Alzate lo sguardo, puntate il vostro dito e venite a prendermi, riportatemi sulla Terra, restituitemi al mondo, restituitemi ai vostri cuori, alla vostra rabbia, ai vostri sogni, riportatemi laddove sono nato, laddove è cominciato il mio viaggio, laddove la mia grandezza può essere ancora rivelata, laddove state crescendo e amando, laddove è vissuto Orlando, che seppure furioso, è stato l’Uomo che io testimonio dalle pagine di questo poema lunare, l’ultimo pazzo Paladino del mondo, quello che vorrei che diventaste Voi.    

20 luglio 1969 ore 20:17:39 UTC.

“Houston, qui Mare della Tranquillità. La Eagle è atterrata”

 21 luglio 1969 ore 2:57 UTC. 

Neil depressurizzò la Eagle, aprì il portello e si avviò per primo sulla scaletta. Sulla cima della scala comunicò come da istruzioni: «Sto scendendo dal LEM ora». Posò il piede sinistro sull’ultimo scalino e pronunciò la frase che aveva scelto come vessillo da piantare nel cuore degli uomini in quell’istante magnifico, e per tutti i secoli a venire: «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità» e poi aggiunse, a beneficio di un unico uomo nel silenzio lunare del suo cuore «Eccomi Astolfo. Sono venuto a riportarti a casa». 

L’ultima notte dell’anno

Salam mia nonna adorata, 

ti dedico questa luccicante notte dell’ultimo giorno dell’anno, a te che mi hai visto nascere nel fuoco del deserto, e dal deserto infuocato fuggire e brillare lungo la scia del mare che mi portava lontano dalla paura gonfia e ininterrotta, dalla miserabile povertà della nostra capanna fatta di fango e di sete, lontano da te nonna adorata. Stasera tutte le stelle del mondo mi hanno invidiato, mentre scendevo dalla macchina, splendida e luminosa come una di loro, e ti ho pensata. 

Come stai, nonna mia? Cosa pensi mia mamma lontana? Cosa sogni mia nonna disperata? 

Il mio viaggio è stato come scendere nello stomaco dell’Inferno. Avviluppata nel mare salato, nel sole assoluto, sola con addosso i miei luridi stracci e tra le mani la bambolina che avevi cucito per me quando sono partita, che profumava di datteri, di sabbia, e di te. La Libia e l’Italia sono separate da appena 36 ore di fame, di solitudine e di paura, ma a me sono sembrate non so quanti giorni, quante settimane, quante notti, tanto sono rimasta immobile su quella barca, attaccata all’invisibile speranza del nulla, soffocata dal nulla degli altri maledetti invisibili e disperati come me, dal loro vomito e dalle mie lacrime.

Poi una notte, era da poco calata su tutti come un mantello avvelenato l’ora più nera, mani senza misericordia né pietà ci hanno preso e ci hanno buttato via dal gommone, come foglie morte, come stracci vecchi, come corpi marci. L’acqua gelida mi scendeva nei polmoni, bruciavo di inferno e di sale, di paura e di disperazione, ma sentivo il tuo cuore, nonna mia, il tuo respiro leggero che mi attraversava i polmoni e mi proteggeva. Intorno a me mani, occhi, piedi, e orribili grida disumane. Le sentivo attaccate a me, sopra di me, dentro di me. Ondate di mare nero a più riprese mi artigliavano come bestie inferocite, era una buccia vuota che andava alla deriva, stavo morendo, ingoiata dal buio. 

Poi non so nemmeno io come, due braccia coraggiose si sono immerse dal buio del cielo nel buio del mare e mi hanno strappato via e l’inferno mi ha rivomitata fuori e una coperta mi ha abbracciata, e ho capito che non ero morta in quella notte.

Arriva l’alba, e qualcuno ci indica la terra che si staglia davanti a noi sopravvissuti alla mattanza degli scafisti, e questa terra si chiama Lampedusa. È bellissima nonna, sembra una sirena addormentata sulle onde del mare. Anche gli italiani sono bellissimi. A Lampedusa ho conosciuto un uomo fantastico, sembra un antico condottiero tanto è fiero, e forte, e bello. E poi mi ama alla follia. Mi chiama la “sua rosa del deserto”. Con lui ho lasciato l’isola e sono arrivata nella capitale del mondo, capisci nonna? Roma! Dal deserto dei morti di fame io, proprio io, sono entrata come una regina nella città immortale!

Roma è una città pazzesca! sembra una città delle mille e una notte! È fatta di voci, di vento fresco, di piazze, di strade lunghe, di mille tetti e di mille fontane quante non credevo ne potesse contenere il mondo intero. Dovresti vedere San Pietro illuminata con le luci di Natale, nonna adorata, sembra che tutte le stelle del mondo si siano date appuntamento quaggiù, nelle strade, nelle case, persino nelle pozzanghere. 

Mi manchi, mamma-nonna triste e lontana, mi manchi un casino. Sto lavorando tantissimo e nascondo tutto quello che guadagno dentro al mio materasso, nella mia casa vera, con le porte e le finestre vere. Nascondo i miei soldi per te e per i miei fratelli, perché la mia vita non sarà mai veramente mia finché non vi avrò trascinato lontano dalla nostra lurida terra maledetta e lontana. La odio con tutte le mie forze nonna, anche se invece tu la ami tanto, perché lei è dura, e crudele, e ingiusta. Odio le nostre case costruite con le lacrime della povera gente, odio la miseria che diventa abitudine giorno dopo giorno e la disperazione che diventa morte notte dopo notte, e la vita che diventa orrore negli occhi indifesi dei miei fratelli. 

Ma stai tranquilla, tra poco tutto questo finirà. Molto presto attraverserò nuovamente il mare, nonna mia, e questa volta lo farò da regina e il deserto non mi fermerà, nessuno mi fermerà, e vi porterò via con me nella città dalle mille fontane e dalle mille pozzanghere nate della luce delle stelle. Buon anno mia nonna e madre, portami sempre nel tuo cuore, e benedici questa tua nipote che ti ama tanto, seppure da lontano. As-salam alaykom. La pace sia con te.”.

Il commissario lesse la lettera, scritta a matita, tutta spiegazzata. L’avevano trovata addosso al cadavere di una giovanissima prostituta forse nemmeno maggiorenne, trovata morta in un vicolo di periferia, forse di overdose, forse no, sarebbe toccato a lui doverlo scoprire. 

Il medico legale le stava richiudendo con delicatezza gli occhi opachi, spalancati a guardare le stelle, algide, beffarde, lontane. Invidiose.

 “Merda di una città di merda”, si disse il commissario accendendosi l’ennesima sigaretta di quella lunga, interminabile notte di Capodanno.      

 

SOFIA

GIORNO 1 

Ascolto le voci ma è come se stessi appena sotto il pelo dell’acqua, come se stessi in un sogno. Riconosco la voce di mia mamma, è qualcosa tra il sospiro e il singhiozzo, le onde sopra di me ne attutiscono la voce, non capisco cosa mi dice. Sta piangendo. 

Vedo mio padre, ma l’immagine non mi è chiara, l’acqua nella quale mi trovo me la restituisce tremolante e dai contorni confusi, vedo i suoi occhi, neri e grandi come i miei. Ha paura. 

Qualcosa mi punge e mi brucia, vorrei parlare ma la bocca non si muove e poi ho paura di bere l’acqua del mare…. mi avrà punto una medusa? Non capisco… non mi riesco a muovere… 

Chissà se sente gli aghi che la pungono sotto la pelle, chissà se sente dolore…” pensava Elena guardando sua figlia. Sofia giaceva sul lettino del Pronto Soccorso pediatrico, la braccia abbandonate lungo i fianchi, gli occhi serrati, il respiro appena percettibile, le pupille che si muovevano instancabili sotto le palpebre, le labbra socchiuse. Sembrava stesse sognando. E invece era in coma. Elena osservava sua figlia come da dentro un incubo. Sofia, il cuore che le batteva nel petto da 14 anni, il respiro che ogni giorno dava la vita ai suoi polmoni e ai suoi pensieri. Sofia, la sua bambina, il sangue che scorreva nelle sue vene, la sua viva pelle, Sofia che ora annegava dentro quel lettino del pronto soccorso, piena di tubi e di sacchetti, attaccata ad una macchina che ne contava i respiri e ne guidava i battiti fin dentro nel cuore e poi nel cervello, la sua Sofia, sospesa come una medusa danzante tra la vita e la morte.  Le mani di Elena stringevano quelle senza forze di lei, mentre i mille pensieri che fino a qualche momento prima le avevano martoriato il cervello, ora erano lì, davanti a quel lettino, sparpagliati e morti, come alghe strappate dalla marea. A parte uno solo, che le attraversava come un cane impazzito la corteccia cerebrale: “se muori amore della mia vita, morirò anche io con te, un secondo dopo”, latrava il cuore di Elena.  Luca era stato chiamato da sua moglie mentre rientrava dal mare con Martina, la loro figlia più grande, verso le 20,00 di domenica sera. Con un soffio di voce lei gli aveva detto: “Sofia non si sente bene”. Quando sia Luca che l’ambulanza erano arrivati 20 minuti dopo, Sofia ancora respirava affannata, si contorceva come se mani invisibili le stessero tappando la bocca per non farla respirare e roteava gli occhi a destra e a sinistra, boccheggiando e dibattendosi come un pesce appena tirato su dall’acqua del mare. Ed ora Elena, mentre le macchine respiravano e pompavano ossigeno e vita nel corpo pallido di sua figlia, ripassava al setaccio come un pescatore di telline quei primi, terribili momenti in cui erano state lei e Sofia, sole, a setacciare il tempo dalla morte.  Sua figlia era andata quella domenica a fare un pic-nic con gli amici e poi era tornata a casa a studiare, perché il giorno dopo aveva una verifica di greco importante e decisiva per la sua media, che peraltro era alta e buona, perché Sofia era brava, diligente, studiosa, attenta ma non competitiva, amatissima da tutti i professori e dai suoi compagni.  Verso le 19,45 circa, era arrivata in salotto e le aveva detto “mamma non mi sento tanto bene…” e poi si era adagiata sul divano, come una stola di seta, come un sospiro trattenuto, come una principessa colpita da un terribile maleficio. Elena aveva immediatamente provato a scuoterla per farla rinvenire e per un po’ ci era anche riuscita, facendola riemergere dal fondo del mare il tempo che arrivasse Luca, l’ambulanza e si spalancassero le porte del pronto soccorso. E adesso Sofia stava per essere trasferita nel reparto di terapia intensiva, il verdetto era stato impietoso: coma da deperimento. Perchè Sofia era anoressica.

GIORNO 2 

 E’ in-cre-di-bi-le! Non ho fame per nulla! A parte questo fatto inspiegabile che riesco a respirare con il naso sott’acqua ma non riesco a parlare, mi sembra che stia andando tutto alla grande! Penso di non essere morta, ne sono quasi sicura, e sono quasi sicura anche di non stare dentro ad un sogno. La cosa più bella è che non sento più il mio corpo, quel corpo grasso e sfatto che odio con tutte le mie forze, che mi blocca i pensieri, che mi tiene inutilmente incastrata sulla terra, che riflette nello specchio la mia imperfezione di ragazzina brutta, e invece vedo chiaramente davanti a me i miei pensieri, anzi sono io stessa quello che ho sempre desiderato essere: un pensiero, lucido e assoluto, finalmente libero. Probabilmente il 99% di quello che sto per affermare sarà sbagliato. Eppure continuerò sempre a credere in quell’1% che mi fa sentire me stessa. La mia teoria.  Si fonda sul libro di Stephen Hawking. Nel suo libro, “la teoria del tutto”, Stephen Hawking ipotizza che l’intero universo, come la terra, è finito, ma senza un inizio né una fine. Ed effettivamente la terra vista come un corpo è sferica, quindi non esiste una partenza e neppure un traguardo, eppure essa è finita nel completamento del suo volume. Il Big Bang quindi potrebbe non essere “l’Inizio” ma solo una piccola cosa successa nel mentre. Come se noi fossimo un pezzo di ferro con un gancio che ci lega ad un altro ferro di cui ignoriamo l’esistenza solo perché non lo vediamo, solo perché non ci interessa nient’altro tranne ciò che siamo ora e ciò che ci lega adesso: un semplice gancio come tanti altri… Ma se provassimo a vedere le cose dall’alto, magari non si tratta solo di noi, del nostro ferro o dei ganci che ci delimitano: è la catena ciò che conta, è solo allora che sapremmo tutto… Se solo smettessimo di guardare un’unica domanda e provassimo a risolvere l’intero problema…. Ecco, ora che sono finalmente pensiero, ora forse potrò capire il segreto della vita, dell’Universo, dell’Inizio di tutto. Sono felice!! Lo dicevo io che il corpo è il solo limite del cervello in questo mondo! Eppure le meduse intorno a me non sembrano convinte, continuano a pizzicarmi con tenacia e costanza, e sento la mano calda di mamma nella mia, mamma mi vedi? Non mi trovi bellissima? Sono un pensiero, senza più fragili ossa, senza più grasso né muscoli ad ostacolarmi nel volo… mamma sento la tua mano che mi trattiene, perché mamma? Perché? Oramai sono grande, posso attraversare l’universo senza che mi tieni la mano … mamma … devo andare …” Elena stringeva la mano gracile di Sofia nel reparto di terapia intensiva, giorno e notte, e quel contatto con la mano inerte di sua figlia era la sola cosa che la separava dalla follia. Guardava il suo viso pallido, bello, disteso, un quadro dell’Ottocento, una bella principessa olandese con la pelle trasparente che lasciava intravede i capillari, piccole stradine azzurre e tortuose attaccate ad una flebo, che percorrevano il corpo disidratato di sua figlia cercando di trattenerla in questa vita, cercando di trattenerla ancora in vita. Come aveva fatto a non capire? Come era potuto succedere che Sofia finisse in questo letto con i bei capelli biondi sparsi sul cuscino opachi e morti? Come aveva potuto commettere lei, Elena, un simile macroscopico errore di valutazione nel non capire il significato di quella bilancia che sua figlia aveva eletto ad altare mattutino, ancora prima di dirle buongiorno, in quegli specchi dove la sorprendeva a misurarsi la pancia sempre più piatta, le ossa sempre più sporgenti, gli occhi sempre più grandi nel viso che si ritirava come un fiume in secca? In quale mostruosa madre si era trasformata da non accorgersi in tempo del mostro che stava divorando la vita di sua figlia e che ora la fissava con disprezzo e superiorità, deridendola attraverso il monitor che teneva in vita sua figlia? Aveva promesso a Dio che avrebbe difeso quel dono con la sua stessa vita quando Dio glielo aveva consegnato 14 anni prima, e che aveva fatto? Aveva disonorato la sua promessa, per egoismo, per superficialità, per fretta, per paura. Adesso avrebbe avuto tanto bisogno di pregarlo quel Dio che aveva creduto in lei e che invece lei aveva ignominiosamente tradito, ma non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi, attraverso il crocifisso sopra il letto di sua figlia. Era disperata. Battuta. Sola. Tutto era cominciato quasi per caso, verso la fine della terza media. Sofia non era particolarmente alta ma era armoniosa, ben proporzionata, aveva gambe magre e spalle da nuotatrice, era una piccola ballerina del mare, una sirena medusa con quei capelli gonfi e tenaci che si aprivano nell’acqua come petali di un fiore e che lei si ostinava con disprezzo a piastrare. “Mamma è colpa tua se sono così!” le diceva con sguardo torvo sua figlia e lei ci sorrideva sopra, sapeva che sua figlia doveva solo passare quel periodo orribile che chiamano “adolescenza”, la “crescenza” della vita, dove sei il contrario di quello che vorresti essere e ti detesti con tutte le tue forze anche perchè il tuo contrario ti si palesa quotidianamente davanti, nei panni della tua migliore amica, alta, occhi verdi e capelli lunghi, nello sguardo superiore della ragazza del compagno di classe di cui sei perdutamente innamorata, alta, magra, capelli lungi, lisci e neri. Quello che il tuo “lui” ti concede è di diventare la sua migliore amica, perché sei intelligente, acuta, simpatica, ironica, con quei capelli selvaggi che nemmeno dopo due ore di piastra si domano e neppure tu puoi essere domata, ma rimani pur sempre un “contrario”. Così lui ti chiama per raccontarti l’ultimo litigio con “l’odiosa ragazza perfetta” o chiederti consiglio sul regalo da farle per il meseversario e tu sorridi, passi con lui ore e ore al telefono a parlare della sua ragazza e di come lui può farla felice, e dentro muori.  Anche Elena sorrideva perchè sapeva che Sofia, la sua meravigliosa bambina, con la sua intelligenza e la sua ironia non sarebbe rimasta impantanata a lungo in questo fastidioso sgambetto della vita. Era stato questo il suo errore, abbassare la guardia fidandosi dell’intelligenza di sua figlia, ma non tenendo conto della fragilità del suo cuore di corallo. 

GIORNO 3 

“Oggi mi è parso di vedere papo e sorellona. Erano così tristi, avevano gli occhi gonfi come se avessero pianto, avrei voluto chiedere loro perché, ma l’acqua non mi molla, a dire il vero mi sono un po’ rotta, non posso parlare e sembra che nemmeno loro possano farlo, mi guardano, mi fissano, gli occhi tristi… Papo! Sorellona! Sto bene! Sono viva e vegeta! Non piangete! Anzi dite a mamma se mi lascia la mano, non riesco a partire se lei mi trattiene, ha una forza incredibile quella donna, non mi molla! Ma io devo andare, è troppo bello essere solo un pensiero, solo molecole cerebrali, è uno sballo! Io non voglio dimagrire per sparire, io voglio che il mondo si accorga di me, ma voglio che non si fermi all’involucro, che è brutto e banale, voglio che veda quello che c’è dietro, quello che io sono dentro, oltre lo stomaco, i muscoli, la pelle, la ciccia, che arrivi al mio cuore e ai miei pensieri…. Ti penso tanto Andrea, ti amo, mi manchi tanto…” Elena guardava le infermiere che lavavano il corpicino scheletrico di sua figlia, e teneva tenacemente sua figlia per mano, come quando lei era piccola e dovevano attraversare la strada. Sofia andava sempre avanti zompettando e canticchiando ma appena arrivava alla fine del marciapiede, si girava sorridendo con la sua bocca di dentini da latte sgangherati e appuntiti e senza dirle nulla, solo sorridendole, le tendeva la manina grassottella e morbida. Ed Elena si riempiva il cuore di quel sorriso e si riempiva la mano con quella di sua figlia e insieme attraversavano la strada, lei facendo scudo con il suo corpo contro le macchine nel caso non si fossero fermate. E sembravano veramente invincibili insieme. “Ti tengo la mano tesoro, non ti mollo, attraversa la strada con me, mano nella mano, come quando eri piccola, lo so adesso mi guardi scocciata quando te la tendo, io lo faccio perché mi dà sicurezza la tua mano nella mia, invece tu mi dici: “mamma sono grande, non mi rompere!! Basta darmi la mano, mi fai vergognare, so attraversare da sola!” “Lo so tesoro, sei grande, sei indipendente, sei sicura di te, ma ti prego adesso dammi la mano, sono io che ho paura di attraversare, sono io che ho bisogno della tua mano nella mia, dobbiamo tornare indietro, non posso lasciarti andare, non posso tesoro, devi tornare indietro da me, amore della mia vita, ti prego, ti scongiuro”.

 GIORNO 4 

“Mamma non mi molla la mano. Vabbè ho un piano: appena si addormenta, mi sfilo e mi dileguo. Le meduse sono troppo urticanti e bah… devo andare”.

I medici parlavano ma non dicevano molto, i parametri vitali stavano tornando buoni, sembrava si stessero normalizzando, solo che Sofia sembrava come bloccata, sembrava come non volere tornare indietro. “In questi casi non si può fare molto” – avevano detto i dottori a Elena e Luca – “si deve solo aspettare: ore, giorni, settimane, anni …”, “forse appena solo fino alla morte…” – finì dentro di sé la frase Elena – e si sentì in balia dell’attesa, come una medusa che lotta disperatamente contro le correnti che la stanno spingendo lungo la battigia. Per quattro giorni era rimasta accanto al corpo addormentato di sua figlia, trattenendola per la mano, sempre, da sveglia e durante le poche ore di dormiveglia, sempre. Ma i medici ora le stavano dicendo che la scienza poteva solo mettere a disposizione di sua figlia monitor, aghi e fili e tubi, ma che se lei non decideva di tornare indietro, la scienza si fermava, non poteva aiutare sua figlia ad attraversare la strada, non poteva darle la mano. Solo una madre avrebbe potuto. La cappella dell’ospedale era piccola ma piena zeppa di fiori, dei fiori che i parenti portavano ai loro cari malati, che venivano lasciati qualche ora a contrastare con il loro profumo l’odore maledetto della malattia e del dolore e poi portati nella cappella, ad onorare con la loro bellezza la grandezza dell’amore di Maria per il mondo. Elena si sedette al terzo banco, nonostante la cappella fosse praticamente vuota, perchè non aveva il coraggio di sedersi proprio davanti a lei, si sentiva a disagio, si sentiva fuori luogo in quel posto pieno di Dio, lei che da Dio spesso e volentieri, per pigrizia, per sbadataggine, per superbia, si era allontanata.Elena guardò l’immagine di Maria, una statua che la ritraeva con il manto azzurro, gli occhi dolci, il viso giovane e sereno, le mani aperte e protese verso il basso nel gesto di accogliere verso di sé il dolore, le lacrime, le speranze, le preghiere di coloro che le si rivolgevano.

Mamma di Dio ti prego ascoltami, non merito di chiedere nulla, il mondo è pieno di madri che perdono ogni giorno i propri figli e io non sono più meritevole di altre mamme, e poi non sempre ho creduto in te, a volte mi sono dimenticata persino che tu esistessi. Però ora sono qui e ti prego ugualmente, però ora sono qui e ti chiedo lo stesso la grazia per Sofia, per la bambina che Dio, tuo figlio, mi ha affidato. Dalle la mano Maria, madre di Dio, ti prego, dalle la mano e portala dove pensi sia giusto che sia, tienila con te o restituiscila a me come desidero con tutte le forze, ma non lasciarla in quel letto Maria, mamma di tutte le mamme, non lasciala appassire come una medusa sulla sabbia, ti prego, Maria, mamma di mia figlia”.

GIORNO 5  

Stanotte ho fatto un sogno. Ero tornata a casa dalla scuola e però non sembrava affatto la mia casa anche se io sapevo che era sicuramente la mia casa. Suonavo e mi veniva ad aprire una bella signora, non la vedevo bene perché avevo la vista un po’ annebbiata e mi sentivo debole, forse perché da giorni facevo finta di mangiare ma in realtà mangiavo una mela a pranzo e un cioccolatino la sera, per attutite i dolori dello stomaco. Ed era anche troppo a dire il vero. Comunque entro in casa, c’è una luce calda e un profumo di mille fragranze di fiori, e la tavola è apparecchiata per il pranzo. La signora mi guarda e ha un bel sorriso, lo percepisco più che vederlo perché mi sento abbastanza svenire, il che è buono perchè vuol dire che sto dimagrendo. So che non è la mia mamma, ma è come se la conoscessi da sempre, come se anche lei fosse stata la mia mamma, in qualche altro universo, chissà… Accidenti – mi dico bruscamente -  devo trovare una scusa per dileguarmi, non posso assolutamente mangiare, ma come faccio con questa signora che mi aspetta davanti alla tavola?  Ed ecco che accade l’impensabile: la signora si sposta da davanti alla tavola e mi accompagna fuori della porta di casa. “Non pranziamo?” – le chiedo speranzosa – “No” – mi risponde – “abbiamo un appuntamento”. Scendiamo per strada, guardo dall’altra parte della strada e … accidenti a me! vedo mia madre! Ecco ora mi chiederà se ho pranzato e non crederà che questa signora mi ha portato via… che palle! Uffa! Proprio lei dovevamo incontrare! Non so che fare, vorrei tornare indietro e cambiare strada, non mi va di andare da mia madre, ma la signora mi fa un cenno: “che pensi di fare?” – mi chiede. come che penso di fare?? vorrei andare dai miei amici, non mi va di sentire gli strilli di mia madre, è pallosa! Poi guardo verso mia madre e sono tornata bambina, e la vedo come la vedevo allora, la mia mamma adorata, non la donna stanca e arrabbiata che conosco adesso, ma la mia mammina, quella che mi prendeva la mano e mi portava ovunque volessi, sulle giostre, a mangiare il gelato, a fare interminabili bagni e lunghissime passeggiate sulla spiaggia a cercare conchiglie, quella che mi raccontava le favole, quella che si addormentava accanto tenendomi la mano per difendermi dai mostri della notte. La signora che potrebbe essere stata anche lei mia mamma in qualche altro universo mi guarda, adesso è seria – “che pensi di fare?” – mi chiede nuovamente – “Vuoi che ti accompagni da tua madre, dall’altra parte della strada, vuoi rientrare nel corpo che disprezzi, nel corpo bellissimo e perfetto che ti è stato regalato, che ti fa correre, ridere, amare, nuotare, cantare e piangere, o vuoi rimanere con me, nella mia casa luminosa … Oppure… preferisci rimanere così?” 

– e mi indica un palazzo, e io vedo attraverso il muro del palazzo e vedo me, proprio me, dentro un letto, piena di tubi, di aghi (altro che meduse! ecco il bruciore!), di monitor, di gente che mi osserva. Sono pallida, smunta, brutta, sembro un fantasma infelice, sembro una medusa morta, nessuno mi tocca. Solo mia madre mi tiene la mano. La vedo bene adesso! Mamma! Mamma! Sono qui! Mi vedi? Cerco la mano della signora, non posso attraversare la strada da sola, è pericoloso, ma devo andare da mia mamma, perché sta piangendo! No! mamma non piangere! Ci sono qui io! Non piangere! Devo solo attraversare la strada! E la signora non dice più nulla ma mi tende la mano e io mi sento di nuovo grande e sì che potrei attraversare la strada da sola, ma non voglio, voglio che la signora mi aiuti e che insieme attraversiamo la strada, voglio che mi porti dalla mia mamma, anche lei è tornata più grande, è più grande e le lacrime la rendono anche più vecchia, ma non importa è sempre lei, è la mia bellissima mamma. La signora lascia la mia mano e la mette nella mano della mia mamma, sorride e anche io sorrido….Sofia si riempì con fatica i polmoni di aria. Aveva finalmente trovato il coraggio di uscire da sotto il pelo dell’acqua, non aveva più paura di essere un contrario perché anche un contrario è a sua volta un uguale, dipende tutto dalla prospettiva con cui lo si guarda. Quindi lasciò che l’aria entrasse dal naso e invadesse i polmoni, la bocca, lo stomaco, il cervello e mentre l’aria entrava, l’acqua defluiva, e Sofia percepì chiaramente il dolore e la fatica della vita che premeva per rinascere dentro il suo corpo: “ce la posso fare ad aprire gli occhi … ce la posso fare” – si disse tra sé e sé. E così fece. Aprì gli occhi troppo grandi per il suo visino pallido e scheletrico, e la prima cosa che vide furono gli occhi stanchi e bellissimi di sua mamma che piangevano di gioia. “Mammina …. ho fame” -  le disse con un mezzo sorriso, stringendole la mano.

 

Ha rinnovato l’iscrizione facendo anche una donazione.