Un sole rosso

Autori: Agata Ferrari Bravo; Aurora Ferro; Leo Ivanov

Ascolta una parte del racconto interpretata da Rodolfo Vettor:

Freddo.
La brutta sensazione di essere allo scoperto. La voglia di una morbida coperta sulle spalle.
Aprii un occhio e poi l’altro, la vista ancora offuscata dal sonno, mi stropicciai il viso con le mani
congelate e mi misi a sedere. Odiavo quella vista mattutina: quattro corpi ammassati l’uno
sull’altro, in cerca solo del modo più semplice per riscaldarsi. Mia madre, mio padre, Josh e Annie.
Sospirai.
Mi diressi verso la vecchia sedia in legno che rappresentava il mio guardaroba, mi infilai i pantaloni
verdi con i buchi alle ginocchia ormai lisi, il maglione di lana ruvida che mi pizzicava la pelle, i
vecchi scarponi di mio fratello Josh e la giacca di cuoio di mio padre. Dopo di che mi feci la solita
coda e scivolai fuori casa. Appena chiusa la porta alle spalle tirai un sospiro di sollievo.
Ecco: ora non ero più Nariss la ragazzina che viveva in una catapecchia in mezzo al bosco.
Ero Nariss e basta.
Mi strinsi nella vecchia giacca da caccia di mio padre e mi tuffai nella foresta.
A quell’ora della mattina si poteva palpare il freddo da quanto intenso era.
Respirai a pieni polmoni l’odore di pino, legno e resina, e abbracciai lo scrosciare del torrente sui
ciottoli. Quel bosco era la nostra sopravvivenza: senza l’acqua del torrente, le prede da cacciare, la
legna da tagliare e le erbe per medicare, noi saremmo già morti.
Il paese era troppo lontano da raggiungere ogni giorno per andare al mercato, in più, noi non
avevamo soldi. Mio padre e mia madre non volevano andare a vivere là, dicevano che eravamo
troppo controllati e avremmo perso la libertà. Pruesvill dopo la guerra era sotto strettissima
sorveglianza. La guerra era finita dieci anni prima .Tutti i villaggi del Nord di Shutter si erano
ribellati contro i paesi del Sud per la miseria in cui affogavano ogni giorno, mentre loro nuotavano
nei privilegi e nello sfarzo. Il Nord era sempre stato povero, Il Sud era sempre stato ricco.
Era un dato di fatto. Ovviamente i paesi meridionali rimisero subito al loro posto i paesini nordici;
e, giusto per farci ricordare che ci avevano in pugno, piazzarono una bella manciata di Shutterhead,
soldati a guardia di ogni villaggio… Per “evitare eventuali scocciature” annunciò il sindaco di
Maffis, la capitale, dopo questa novità del controllo assoluto.
Così gli Shutterhead controllavano la nostra vita: commerci, baratti, case, bambini, tasche, borse,
cassetti, case e tutto ciò che in qualche modo aveva a che fare con noi.
Ogni sera giù in paese facevano “il Controllo”.
Ogni sera di ogni singolo giorno.
Ogni tanto passavano anche da noi su nel bosco, ma raramente, perché ci consideravano innocui in
una casa desolata in mezzo agli alberi e agli orsi, come se gli altri avessero grandi cose da
nascondere. Per questo mio padre voleva restare lì: “Voi, il mio bosco e i miei libri”, diceva sempre.
Sorrisi.
Lui mi faceva sempre sorridere.
Camminai alla cieca per circa un’ora, masticando semi, calpestando le foglie e spezzando rami.
Dopo un po’ mi arrampicai su un grosso albero ricoperto di muschio. Mi appollaiai su un ramo e
osservai il cielo: grosse nuvole grigie si contorcevano sopra di me in modo sinistro. Dopo cinque
minuti un muro d’acqua piombava dal cielo.
“Che stupida che sei Nariss”, mi dissi saltando giù dall’albero e andando a cercare un riparo.
Riuscivo a correre come un cerbiatto: in modo silenzioso e velocissimo.
Avevo una resistenza impressionante, per il fisico magro e denutrito che avevo, ero forte.
Queste erano le uniche cose che potevo riconoscere con un sorriso sulle labbra.
Corsi diretta alla grotta vicino al lago e ci piombai dentro. Strizzai la lunga coda che avevo creato in
modo spiccio quella mattina e osservai il mio riflesso su una pozzanghera. Sinceramente mi sentivo
uguale a tutte le altre persone del mondo: lunghi capelli rossi estremamente spettinati, pelle
chiarissima –io direi grigia-, banalissimi occhi chiari che mi facevano sembrare più spiritata di
quello che già sembravo, e due o tre lentiggini sul naso.
Non ero “una bellezza”, se così ci si può etichettare. Scacciai questo pensiero con la mano.
Non mi importava di essere attraente, né mai mi era importato.
Io non occupavo la mia mente ombrosa con quei pensieri così frivoli e inutili. Non me lo potevo
permettere.
La pioggia andava avanti incessantemente, così il sonno prese il sopravvento, appesantendomi le
palpebre e facendomi crollare addormentata sulla pietra dura della grotta.
Mi risvegliai che pioveva ancora e, data la luce grigiastra e pallida, non riuscivo a capire che ore si
erano fatte. Mi sentivo stordita e avevo un gran mal di testa. Mi massaggiai le tempie e mi misi a
sedere.
Guardai fuori con aria esasperata, pregando che smettesse di piovere, perché era da un po’ che non
mi facevo vedere a casa. In più, a giudicare dal brontolio continuo che emetteva il mio stomaco,
avevo saltato il pranzo.
Mentre stavo per decidere il da farsi, sentii un rumore alle mie spalle. Mi voltai per cercarne la
causa, ma oltre a roccia nera e qualche stalattite gocciolante, non c’era nessuno.
Alzai le spalle e mi buttai a capofitto fuori dalla grotta, in mezzo alla pioggia. Non vedevo a un
palmo di naso, ma tutti gli anni che avevo passato a giocare tra quegli alberi mi avevano insegnato a
trovare la via di casa anche ad occhi chiusi.
“Sei fradicia” disse mio padre appena misi piede dentro casa.
“Sei stata una stupida ad uscire con questa pioggia, se ti ammali non possiamo curarti in modo
adeguato” aggiunse poi, togliendomi la giacca. Sapevo che alludeva al fatto che non potevamo
permetterci di avere un medico.
“Lo so papà. Non ho badato al cielo quando sono uscita”, mi giustificai.
Mi spogliai e misi i vestiti ad asciugare, indossando dei vecchi abiti di mio fratello. Mi rannicchiai
sul letto, cercando di scaldarmi il più possibile.
Non mi sarei ammalata.
“Ciao Ris”, disse Josh entrando in casa. A quanto pare quella mattina non ero stata l’unica a non
accorgermi del maltempo che arrivava.
“Ciao Jo”, dissi dandogli una pacca sulla spalla. Aveva portato un bel po’ di legna, che però era
bagnata e umida, quindi mi ci volle un po’ prima di poter accendere la vecchia stufa arrugginita.
Mamma e Annie si fecero vedere solo all’ora di cena, portando in tavola quello che si può definire
un arrosto. Ma si erano date da fare. D’altronde, non si poteva mangiare molto con lo scoiattolo che
aveva portato a casa papà il giorno prima. Mangiai di gusto la misera coscetta che mi spettava e
regalai un gran sorriso ad Annie, che sicuramente si sentiva molto soddisfatta di aver riempito le
pance della sua famiglia.
Erano sempre lei e mamma che cucinavano.
Mia madre si chiamava Everdeen.
Io le assomigliavo molto, almeno così si diceva, anche se lei mi era sempre sembrata decisamente
più bella di me. Nonostante le guance scavate, e l’espressione stanca, la mamma aveva mantenuto
l’aria affascinante di quando era una giovane donna. Aveva lunghi capelli marroni, con i riflessi
dorati, e grandi occhi chiari, con folte ciglia. Aveva la pelle diafana, non come la mia che mi faceva
sembrare morta. No, la sua la faceva sembrare una preziosa bambola di porcellana. Lei notò che la
osservavo trasognante e mi diede un buffetto gentile sulla spalla, come per risvegliarmi. Trasalii, e
solo allora mi resi conto di essere molto stanca.
Mi strofinai gli occhi e andai a stendermi.
Non mi presi nemmeno il disturbo di spogliarmi che già ero nel mondo dei sogni.
“Nariss! Hei Ris svegliati!”
Ad interrompere il mio sonno era la voce calda di Jo che mi scrollava una spalla.
“Che c’è?”, chiesi intontita aprendo gli occhi.
“Oggi è il giorno, Ris. Se sei troppo stanca però puoi stare a letto; è meglio se non ti affatichi. E poi
fuori si gela sul serio.” Mi sussurrò mio padre alle spalle di Josh.
Questo bastò per farmi svegliare del tutto.
“Ma scherzate? Sto benissimo!”, dissi esaltata balzando giù dal letto.
Quello era il mio giorno preferito: era il giorno in cui potevo andare a caccia con papà e Jo, con cui
passavo l’intera giornata nei boschi a procurare la cena. A volte ci scappava pure qualche pescata al
torrente. Anche se occupavo le mie giornate a vagare per i boschi, non mi era permesso usare le
armi per cacciare in solitudine.
A volte mi sentivo un po’ sola in quei boschi.
Sola a seguire le piste dei cervi, a studiare gli animali, a fare il bagno nel torrente, a correre per le
valli, sempre, sempre sola.
A volte, l’unica cosa di cui sentivo l’ardente bisogno era avere un amico.
Un amico con cui cacciare, parlare, ridere e litigare.
Ma quell’amico non c’era. Perciò per me era una gioia avere accanto mio padre e mio fratello.
Con loro mi sentivo protetta.
Uscimmo nell’aria gelida dell’alba e ci incamminammo nel fitto del bosco.
Un fremito mi percorse la schiena.
Quando ero sola non mi spingevo mai fino al cuore della radura, perché mi era proibito.
Papà e mamma dicevano che c’erano gli animali selvatici e che senza arco non potevo proteggermi.
“Allora datemi l’arco e lasciate che mi protegga!”, gli avevo urlato contro. Dopo di che mi tappai la
bocca e gli chiesi scusa. Ero abituata a portare rispetto e a non contraddire le loro scelte; ma
quell’argomento era un punto debole per me. Il fatto che non si fidassero mi dava sui nervi. Scrollai
la testa e cercai di non pensare alle vecchie discussioni. Almeno non quel giorno.
“Tieni”, disse Josh porgendomi il mio arco. Lo afferrai decisa e accarezzai il liscio legno d’ebano di
cui era fatto. L’aveva costruito mio padre il giorno del mio dodicesimo compleanno. È stato il
regalo più bello della mia vita.
Afferrai una freccia e la preparai tesa. Ho imparato a preparare la freccia prima di avvistare la
preda, per fare il minimo movimento quando arriva il momento di scoccarla. Così, quando avvisti
una preda ti acquatti, prendi la mira, tendi l’arco al massimo e zac: la cena è servita. Odiavo vedere
le creature morire, ma da quando l’unico nostro modo per sopravvivere era uccidere animali, me ne
ero fatta una ragione. Ormai mi ero abituata. Una ferita grave nel torace di una cerva non era più
motivo di lacrime, ma di festeggiamento per avere una cena sostanziosa e per riuscire a riempire le
nostre bocche affamate, alla continua ricerca di cose da infilare nella pancia. Ci eravamo ridotti a
sembrare tornati alla preistoria: eravamo animali quanto quelli che mangiavamo.
Mio fratello piazzò parecchie trappole qua e là in posti strategici e io incominciai ad incamminarmi
alla ricerca delle mie prede. Ero talmente silenziosa che, oltre allo scrosciare lontano del torrente, il
bosco è in un silenzio assoluto. Chiusi gli occhi.
Facevo sempre quel gioco.
Ad occhi serrati mi incamminai a passi felpati per il bosco, con l’arco teso e le orecchie che
percepivano il minimo rumore. Sentii un fruscio. Silenzio. Un altro lievissimo fruscio.
Sorrisi.
Ecco, quella era la mia preda.
Seguii con le orecchie ogni minimo rumore che faceva la bestia.
Mi immaginai una cerva. Alla fine dell’inseguimento, dopo circa cinque minuti di ascolto
accuratissimo, il mio corpo sapeva esattamente dove si trovava l’animale.
Tesi l’arco al massimo, un secondo di silenzio e scoccai la freccia.
Sentii un urlo di dolore e un corpo che cadeva a terra, mugolando.
“Oh, mio Dio! Jo, sei tu?”, chiesi mortificata per quell’errore madornale. Ero sicura di aver colpito
mio padre o mio fratello, perché nessun animale avrebbe potuto emettere un grido così umano.
Corsi in soccorso al ferito, sicura del fatto che fosse caduto a circa dieci metri di distanza da dove
mi trovavo a puntare la freccia. Corsi in quella direzione, sentii i lamenti avvicinarsi, scavalcai un
cespuglio di bacche e trovai un corpo disteso a terra, contorcendosi con una freccia infilata nel
braccio.
“AAAAAAAAAAAAAAAh!!”. La mia bocca non riuscì a trattenersi dal lanciare un urlo.
Il corpo che si aggrovigliava ai miei piedi non era quello di mio padre, e neanche quello di Josh.
“E tu chi sei?!”, chiesi al moribondo, stravolta.
“Ahi! Ti prego, aiutami! Ho una freccia infilzata nel braccio!”, mi supplicò il ragazzo.
“Sì, questo lo vedo”, risposi in modo brusco. Ero sconvolta.
Nessuna persona a parte gli Shutterhead era mai venuta su da noi, nel bosco.
“Perché sei qui?”, incalzai sospettosa.
“Allora mi aiuti o no con questa freccia? Ah, non so quanto posso resistere ancora!”, mugolò lui in
risposta. Quel ragazzo mi stava proprio antipatico.
A giudicare dagli abiti sporchi e consumati che indossava sicuramente non era ricco. Probabilmente
veniva giù dal paese, quindi non era messo poi tanto male in fatto di cibo. Infatti, era muscoloso e
ben tornito. E poi, quanto la faceva lunga per quel braccio! La freccia non era nemmeno andata
tanto in profondità e lui continuava a contorcersi come stesse per morire. Per di più non si era
nemmeno preoccupato di rispondere alle mie domande e non mi aveva ancora guardato in faccia.
Dopotutto era nel mio bosco!
“E va bene, ora ti aiuto”, sbuffai.
Mi accovacciai al suo fianco e gli sfilai con destrezza la punta della freccia che si era conficcata
nella sua pelle. Anche se cercavo di essere il più delicata possibile, il ragazzo continuava a
lamentarsi in modo disperato. Lo guardai impaziente. Quando ebbi tolto la punta dal suo braccio,
non rimaneva che una piccola ferita. Raccolsi una foglia verde e gliela posai sulla lesione, per
evitare che si infettasse. Quando ebbi finito guardai il risultato con soddisfazione.
“Ecco, ora che ti ho aiutato potresti degnarti di rispondere alle mie domande?”, chiesi in un
sussurro. Non mi andava l’idea che papà e Josh mi vedessero a chiacchierare con uno sconosciuto.
“Mi chiamo Frank. Vengo dal paese”, rispose il ragazzo. “Bene, Frank, ora mi dici perché sei
venuto fin qua?”, chiesi esasperata.
“Perché volevo vedere il bosco. In città tutti dicono che è troppo pericoloso, ma mi affascinano gli
alberi e volevo venire a conoscerli”.
Lo guardai incredula. Nessuno era mai venuto perché voleva conoscere gli alberi.
Neanche gli Shutterhead avevano voglia di venire fino a casa nostra per fare “Il Controllo”; e ci
passavano raramente per obbligo.
“Scherzi?” gli domandai
“Perché dovrei? Ah, il braccio! Hai modi un po’ rudi, mi hai squarciato la ferita!”, disse in modo
lamentoso Frank.
“Oh, ma quante storie per una semplice escoriazione!”, sbuffai. Poi mi alzai e lasciai il ragazzo a
lamentarsi con il cespuglio di more che aveva accanto.
“No! Aspetta, dove vai?”, mi urlò poi, mentre realizzava che lo stavo abbandonando.
“Scusa un secondo! Mi sembra che prima che piombassi tu a lamentarti dei miei modi bruschi, io
mi stessi facendo gli affari miei! Pretendi che stia la accanto a te finché ne hai voglia?” gli urlai
indispettita. Ora non mi importava se mio fratello mi avesse sentito.
“Beh, diciamo che ora ti lascerei in pace se non mi avessi impiantato una freccia nel braccio!”
“Non ti ho mica ucciso! E poi se tu fossi stato abbastanza sveglio da renderti conto che c’era una
ragazza che ti puntava un arco addosso magari ti saresti spostato!”.
Ero fuori di me. Chi si credeva di essere quel ragazzo?
“Non ti avevo sentita!” protestò Frank con il suo solito tono lamentoso.
Mi diressi verso di lui con il sangue al cervello, intenta a dirgliene di tutti i colori, ma poi quando
gli arrivai ad un palmo di naso cambiai idea.
Non aveva senso sprecare energie per quel personaggio.
“Allora come posso aiutarti?” chiesi in modo cordiale e sorridente.
“Pensavo che mi avresti tirato un’altra freccia”, sospirò Frank. Mi uscirono i fumi dalle orecchie da
quanto innervosita ero, ma cercai di sostenere quel tono gentile.
“In teoria… beh, sì, hai proprio ragione, hai già fatto abbastanza grazie, ora me ne torno a casa da
solo. E scusa se ti ho fatto perdere tempo.” Disse lo sconosciuto dopo aver riflettuto per cinque
minuti. Mi rilassai, e il nervosismo svanì.
Finalmente quel ragazzo aveva messo in moto il cervello.
Si alzò, raccolse da terra il suo zainetto verde e incominciò a incamminarsi nel bosco premendosi la
foglia sull’avambraccio. Lo osservai allontanarsi.
Era abbastanza alto, con i capelli rossi tali quali ai miei, a quelli di Annie e di mio padre, due grandi
occhi grigi e le braccia forti. Mi chiesi se sarebbe tornato. Dopotutto, quando ragionava non era
troppo male.
Ma no, era ovvio che non sarebbe tornato. Dopo che al suo arrivo al bosco una ragazza gli aveva
impiantato una freccia nel braccio e lo aveva trattato come un essere insignificante, sicuramente
avrà pensato bene di non arrischiarsi a tornare.
“Ecco, brava stupida che sei Nariss, hai perso la tua ultima occasione di avere un amico”, mi dissi
ritornando alla mia caccia.
Dopo l’episodio con Frank, il pomeriggio perse tutto il suo fascino. Uccisi ben due cervi maschi
adulti, tre conigli e quattro scoiattoli senza nemmeno essermelo ricordato quando era arrivata l’ora
di mangiarli.
La mia mente era interamente occupata dall’immagine del ragazzo che si incamminava nel bosco il
suo ridicolo zainetto verde sulle spalle.
Avrei potuto avere un amico.
Mi diedi un pugno in testa.
Come sempre ero riuscita a rovinarmi da sola.
Un urlo lacerò il silenzio della notte.
“Cosa succede An?!”
Erano le quattro del mattino.
Annie mia sorella minore affannava in un bagno di sudore accanto a me, con un espressione
terrorizzata in volto e le mani nei capelli.
“Ancora lui?” chiesi in modo dolce stringendola a me.
“Sì”, singhiozzò la bambina con voce tremula abbracciandomi stretta.
Le accarezzai in modo delicato i lunghissimi capelli rossi completamente bagnati di sudore.
“Va tutto bene”le sussurrai in un orecchio.
“Ci sono io a proteggerti”.
Ogni mercoledì di ogni settimana mia sorella faceva lo stesso incubo. Non era mai riuscita a
raccontarci qual era la causa di tanta angoscia la fatidica notte, perché al solo ricordo si aggrappava
a me ed incominciava a tremare come una foglia. Annie dormiva a fianco a me, quindi mi sentivo in
dovere di doverla rassicurare dopo che mi faceva venire un infarto lanciando un urlo nevrastenico.
Lei aveva realmente paura.
Una paura pazza, che non ti fa vedere le cose in maniera reale, e che ti fa pensare che non ci sia via
di scampo.
E quella paura colmava gli occhi di mia sorella ogni volta.
Ci voleva un po’ per farla tranquillizzare, ma io ero l’unica che ci riusciva in pieno. Le volevo bene.
“Annie sei a casa. Ci sono io qua a proteggerti. Io, Nariss, tua sorella. C’e anche la mamma, ma lei
deve riposare, perché è molto stanca. Josh e papà sono al torrente a prendere l’acqua. Quando
torneranno ti farò un the. Annie, devi stare tranquilla, perché era solo un sogno, e ora sei al sicuro.”
Ogni volta glielo ripetevo in modo dolce in un orecchio, e l’abbracciavo forte.
“Ris? Perché faccio questo brutto sogno?”
“Perché sei molto angosciata, An.”
“E c’e un modo per farmi passare l’angoscia?” mi chiedeva poi guardandomi negli occhi.
“Sì. Devi raccontarmi il tuo incubo Annie. Se me lo racconti poi noi lo buttiamo via, giù dal dirupo
e non lo farai mai più” le rispondo cercando di essere il più rassicurante possibile.
Lei mi guarda fisso per un po’, poi distoglie lo sguardo, tira su il naso e si rannicchia nel letto. Poi
chiude gli occhi e sprofonda nel sonno. Le accarezzai una ciocca di capelli e mi rimisi distesa.
Ogni volta dicevamo le stesse identiche cose.
Ogni volta.
Poi lei distaccava lo sguardo, si rannicchiava sul letto e ripiombava nel sonno. Mi strofinai gli
occhi. Ormai potevo mandare all’aria l’idea di rimettermi a dormire.
Avevo troppi pensieri per la testa.
Anzi solo uno: il ragazzo del giorno prima.
Mi alzai, mi vestii e presi una coscia di coniglio prima di uscire di casa. Sarei andata incontro a
papà e Jo. Anzi, no.
Sarei andata in giro per il bosco da sola. Come tutti i giorni.
“Tanto ormai ci sei abituata”, mi ripetei in modo arrabbiato. Ma poi, proprio mentre stavo per
incamminarmi come al solito tra gli alberi, un idea mi sfrecciò nella mente. Era folle,
completamente folle, ma era come un istinto. Dovevo farlo.
Rientrai in casa a passi felpati, diretta verso il mobile di legno accanto al letto di mio padre.
Aprii il terzo cassetto, sfilai la sacca di tessuto che c’era all’interno, e sgusciai fuori.
Sfilai con le mani tremanti il mio arco dalla sacca e melo infilai in spalla, faretra e frecce comprese,
sorrisi al cielo felice ed esaltata e mi fiondai nel bosco.
Corsi più veloce del vento, sfidando cerbiatti e lepri, scavalcando massi e inspirando l’aria fredda
della mattina. Sapevo cosa fare. Sarei andata giù. Giù in città, per vedere com’era la vita. La vita dei
contadini, delle massaie, dei fornai e dei fruttivendoli. E per trovare Frank e chiedergli scusa.
Dovevo.
Perché io dovevo fargli sapere che non sono la bestia scorbutica e cattiva che gli ha tirato una
freccia nel braccio.
No.
Io sono Nariss, una ragazzina ombrosa e selvatica ma col suo lato interessante e forte.
E che ha bisogno di lui, il ragazzo che ha sfidato pericoli di cui aveva solo la sbiadita conoscenza
per venire a vedere gli alberi del mio bosco. Avevo bisogno di una persona che mi stesse accanto. E
così andai incontro alla vita: con l’arco in spalla e la fame amara nello stomaco.
E non mi ero mai sentita meglio.