Ricordanze ungarettiane

Sala degli Specchi di Frascati… Conferenza tenuta a braccio

A proposito della poesia di Ungaretti, ho preso le mosse da una suggestiva metafora dello scomparso Carlo Bo (vero e proprio colosso della nostra critica letteraria del Novecento); metafora in base alla quale l’albero nudo e solitario dell’ALLEGRIA è da immaginare, nel tempo posteriore, trasformato in una vasta e ossigenata selva poetica con pochi paragoni nel Novecento europeo; giacché il “versicolo” del primo Ungaretti si amplifica, di fatto, nel musicale e solenne discorso poetico del SENTIMENTO DEL TEMPO (1933), silloge in cui confluiscono non poche liriche ispirate al poeta dal paesaggio dei Castelli Romani (Ungaretti visse infatti a Marino, in provincia di Roma, a cavallo fra gli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta, nel secolo scorso). La suddetta metafora è stata comunque da me più stringentemente motivata avvalendomi delle poche, fondamentali pagine (1945) su Ungaretti di un altro grande critico del nostro Novecento, Giuseppe De Robertis (vedi pagg. 405-21 dei Meridiani, GIUSEPPE UNGARETTI, VITA DI UN UOMO, Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Arnoldo Mondadori Editore); il quale De Robertis -stavo dicendo- ci indica nelle citate pagine con precisione la poesia in cui il verso italiano -turgido di dannunzianesimo e nel contempo bigio nel suo crepuscolarismo- già riportato al grado zero da Ungaretti nelle precedenti e folgoranti liriche dell’ ALLEGRIA, si fa ora ritmo superbo, resurrezione metrica in potenza e in atto; ebbene, tale poesia (pag.97 del citato volume), è quella che chiude la prima, indimenticabile raccolta ungarettiana:

PREGHIERA

Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera

Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido

Mi pemetterò qui di ricostruire l’analisi metrico-stilistica da me compiuta.

Primo verso:

settenario tronco, a configurare un ritmo che non può distendersi in un rassicurante incipit dall’uscita piana; considerando cosa sta augurandosi tramite il verso in oggetto quell’uomo di pena che è stato Ungaretti (così come il poeta stesso si è esplicitamente riconosciuto).

Secondo verso: endecasillabo, anch’esso tronco (e non potrebbe essere diversamente, in base alla sua emissione di senso); peraltro, un endecasillabo non canonico, ossia atono nella quarta e/o sesta sillaba, a riprova di come il poeta -volendosi affrancare da una vera e propria selva

oscura- non debba preoccuparsi -modernamente- di una pre-disposizione ortodossa degli accenti del verso (e, in effetti, De Robertis e Bo non fanno che ricordarci il possente lavoro ungarettiano a vantaggio di generazioni di poeti).

Terzo verso: finalmente un endecasillabo con accenti sulla quarta e settima sillaba; dunque, nell’ambito della più dorata tradizione italiana; se non fosse per quella parola ancora ostinatamente sdrucciola sulla quale va a posarsi l’accento di quarta (“limpida”): ma il poeta comincia eccome a riveder le stelle!

Quarto verso, graficamente distanziato, nel testo, a formare una stupenda anafora con l’attacco della lirica; quarto verso: formato da un endecasillabo finalmente canonico e mirabilmente fluido; vibrante di un disteso canto con accenti sulla quarta e ottava sillaba (do per scontato, ovviamente, l’inevitabile accento sulla decima sillaba, ché altrimenti non parleremmo di endecasillabi). Ecco, con tale verso, il quarto, sta avvenendo davanti agli occhi del lettore una metamorfosi di luce. Meraviglioso davvero, questo farsi della poesia, secondo il grande insegnamento dantesco, in Ungaretti!

Quinto verso: ancora un endecasillabo, e canonico, con un significativo accento sulla sesta sillaba di una parola sdrucciola, “concedimi”, in cui va ad agglutinarsi tutto il senso della non scontata invocazione ungarettiana.

Sesto e ultimo verso: un limpidissimo e canonico endecasillabo puro come un diamante (per dirla col De Robertis); laddove la rinascita del poeta è dolorosamente avvenuta, strappata al buio; come attesta l’allitterazione basata sulla consonante g lungo il crinale del verso: verso in effetti binario nel ritmo, prima ascendente e poi discendente (a comprovare il suo puro conio diciamo così pneumatologico; con questo volendo alludere ad un respiro poetico che si offre già come senso sul piano fonematico del discorso poetico, in maniera non dissimile dal verso di chiusa dell’ INFINITO leopardiano).

Rinnoviamo pertanto il nostro più profondo, commosso ringraziamento a Giuseppe Ungaretti per questa sua stupenda PREGHIERA: una poesia quanto mai ad hoc per l’anno nuovo imminente.