Riccardo

Era un ragazzo biondo, con gli occhi azzurri, esile e lungo; dall’aspetto tedesco, era sveglio e intraprendente come pochi ragazzi della sua età. Fissava le cose come se volesse spremerle, per ricavare dalla loro essenza qualche verità. Suo padre, indurito nel lavoro dei campi, sembrava serio e burbero; ma aveva un gran cuore e la sua serietà molte volte era causata dalla generosità. Era inasprito dal troppo lavoro della moglie e dal timore di non riuscire nei suoi propositi prima di morire.
Riccardo aveva dieci anni e frequentava la quinta elementare. Dopo avere terminato i compiti, correva col babbo nei campi, nei fossati, pei filari, ora dietro le mucche, ora davanti, ora ruzzava col cane, ora si dedicava all’orto. Questo era il suo hobby preferito. Il suo orto era ricco come un’intera fattoria. Ben coltivato e tenuto, faceva a gara col padre a farci crescere i raccolti. Vi potevi scorgere le fossette ben ripulite, le prode ben precise, da cui fra poco sarebbe sbucato il verde dello spinacio; tutto intorno le viti avevano perduto, ora, i pampini e costituivano un ornamento un po’ squallido. Era affezionato alle sue viti, le curava e al momento opportuno le potava e le zolfava. La sua più grande festa era giusto l’autunno, quando, per la vendemmia, raccoglieva l’uva e, con cura meticolosa, si dedicava alla sistemazione del raccolto. Appena, poi, spillava il vino, dopo tutto il lavorio necessario, lo raccoglieva in bottigliette, su cui aveva applicato l’etichetta di carta gialla col suo nome. Lo confrontava con quello del padre e discutevano da intenditori, ma soprattutto lo asserbava per i grandi inviti. Allora tirava fuori il suo tesoro e parlava del procedimento con cui era riuscito a ottenere quel nettare meraviglioso. Vendeva anche i piccoli raccolti e risparmiava il ricavo. Poi, faceva doni al padre e alla madre per il loro compleanno. Una bella pipa, una bella tabacchiera d’argento, che egli mostrava orgoglioso, erano stati i doni per il padre. Alla madre donava rose, perché le amava come poche altre cose. Se lo ricordava sempre e, quando passava davanti a una vetrina e vedeva delle belle rose, diceva: “Che bei fiori per mia madre!”
Lei gli ripeteva che la rosa è l’espressione più bella della natura e la natura riesce a dire con essa quello che nessun poeta potrà mai dire.
Quell’anno era riuscito a far crescere due belle prode di insalata e tutti i pomeriggi si recava al mercato con due o tre cassette che vendeva sotto gamba. Aveva messo da parte un bel gruzzoletto e già aveva in mente come spenderlo. Il ventotto di aprile, in un paese vicino, si svolge una meravigliosa fiera e banchetti pieni di merce espongono novità di ogni genere. “Andrò alla fiera e comprerò gli stivali nuovi al babbo e una bella caffettiera alla mamma” si disse “e per me, comprerò una vanghetta e un paio di forbici da pota ché devo sempre prendere quelle dei genitori.”
La madre ne gioiva; figlia di un commerciante del paese, in altri tempi faceva parte di una delle famiglie benestanti. Donna sensibile, umana e intelligente, non sapeva frenare le lacrime per la più piccola gioia o per il più piccolo dolore.
Riccardo parlava spesso con lei, che riusciva in buona parte a illuminare i perché del figlio. Mentre il padre, che appena aveva imparato a leggere e a scrivere in tarda età, il più delle volte rispondeva: “Non farmi domande sciocche.” Riccardo si incantava di fronte alla natura; e si domandava il perché delle piante, del cielo, della luna, della terra, del sole, degli uccelli, dei fiori. “Padre cosa sono i colori ?” “Perché le piante sono verdi, l’uva cresce bianca e rossa e il cielo forma cento colori, quando il sole va dietro le messi ?” “Padre io voglio studiare, se non mi fai studiare mi ammazzo.” Non aveva ancora fatto le sue semplici meditazioni, che balzava come un cerbiatto dietro al cane in una furiosa corsa per tutto il campo.
Quella di Riccardo era una casa colonica, che il genitore era riuscito a comprare dal padrone dopo infiniti sacrifici di anni e anni di lavoro. Una casa in mezzo alla campagna, circondata da cachi, fichi, melograni, peri e meli. Non mancavano il bel pozzo, la grande pila, dove la madre passava ore e ore a lavare. Una di quelle case dimenticate dal Signore, nel cuore della campagna, lontana dalla civiltà. Ma il sole, gli alberi, il cielo, il canto degli uccelli e i colori della terra erano più belli che da ogni altra parte. Molte volte Riccardo si sedeva sul pianerottolo delle scale e guardava estasiato fino all’orizzonte; e i suoi occhi semplici e buoni si perdevano in quell’ampiezza serena e profumata di campo. Gli alberi più alti spezzavano con le chiome l’azzurro del cielo e un immenso mare, a momenti giada, in altri ocra, ondulava sotto la leggera carezza di un venticello divino. Quando il sole infuocava le messi e quegli alberi, come dei giganti in mezzo al fuoco, risaltavano ancora di più, più che mai si sentiva colpito da quella esplosione di forza naturale.
La mattina di quel mercoledì Riccardo era distratto e più volte il maestro l’aveva ripreso e gli aveva chiesto che cosa avesse. Ma lui vedeva già tutti quei banchetti colorati e bene allineati ai bordi delle strade, ricchi di vestiti, di giocattoli, di dischi, di attrezzi per il suo orto, davanti ai quali si sarebbe fermato incantato. Suonò presto la campanella, in un baleno arrivò a casa, mangiò tre bocconi, avvisò il padre e la madre e si incamminò verso la fiera.
Quel giorno l’argine del Serchio era di un verde ricco e intenso. L’erba bella asciutta del fresco aprile lo invitava a far capriole nel suo mare di verde, mentre il sole primaverile tiepido e puro schiariva l’orizzonte sopra il fiume. L’acqua scorreva veloce, portandosi dietro di tutto e facendo impressione coi suoi vortici di corrente. Ma Riccardo andava veloce sull’argine, salterellando e dando via via pedate ai fili d’erba che trovava sul sentiero. Il cuore gli batteva e i suoi occhi si perdevano nell’immensità del cielo assieme ai palloncini, che già si intravedevano in alto. Gli altoparlanti annunciavano le attrazioni del luna park: uomini nani, giuochi di prestigio, macchine volanti, pozzo della morte. Riccardo si gettò nella vita, nel movimento. Tutto gli sembrava grande, chiassoso, veloce, nuovo; per lui, che era abituato al suo orticello, dove di tanto in tanto gli arrivava all’orecchio la voce del padre che incitava le bestie, per lui, che era abituato a vivere in quella casetta lontana dal mondo, tutto assumeva una dimensione colossale. Le ruote che giravano, le piste che avveravano tanti sogni di ragazzi, le colonne di ferro che sembrava si perdessero nel colmo. Nemmeno la grande quercia gli faceva quell’impressione, quando la guardava dal basso. E giochi, giochi, giochi che per lui erano solamente un sogno. Scimmioni che si muovevano battendo i piatti, strane macchine che si fermavano e cambiavano direzione di fronte agli ostacoli, fucili meravigliosi, bambole che chiamavano mamma, recitavano poesie o piangevano.
Ma un banchetto richiamò la sua attenzione.”Che meraviglioso orologio da taschino per mio padre!” Era un gioco, uno fra i tanti che esistono nella vita, semplici insignificanti, ma cattivi. Si trattava di coprire la superficie di un tavolino con quattro dischi. Solo in tal caso si sarebbe vinto; e il pensiero di poter vincere quell’orologio, quel meraviglioso orologio per il padre, lo avventurò nel rischio. Una volta, due volte, le ultime cinquecento lire, poi la fine. Per quel gioco malizioso fu facile avere ragione dell’ingenuità di Riccardo. Successe tutto in un baleno e non si rendeva conto di come avesse potuto gettare via tutti i soldi. Ora vedeva quelle cose con altri occhi. Della fiera non gli importava più; tanto era solamente un sogno e non poteva essere di più. Ma gli stivali, la caffettiera e i suoi attrezzi, ai quali aveva tanto pensato. Per lui la fiera era finita. Risalì l’argine e non si voltò nemmeno con un ultimo sguardo verso quel via vai che tanto l’aveva deluso. Un nodo gli strinse la gola, si fermò, poi, tirò fuori una foto di babbo e mamma che custodiva scrupolosamente nel portafoglio e dette sfogo al dolore. Pianse, pianse profondamente per tutto il tragitto e pianse ancora nell’orticello accanto alle sue viti.

*** Intanto Riccardo aveva terminato le elementari e stava per iniziare la lunga carriera di studente. Il padre gli aveva comprato la bicicletta nuova, colla quale tutte le mattine si sarebbe dovuto recare alla scuola in città. Una bici lucida, fiammeggiante, che ogni dieci minuti puliva e ripuliva con un panno sempre a portata di mano. La mattina che giunse a casa con tutti i libri di testo sembrava impazzito. Li sfogliava, leggeva a sprazzi due pagine in qua, due pagine in là, assetato di sapere, desideroso di ricavare da quei libri le prime risposte ai suoi perché e di appagare il suo amore per lo studio. Liberò la stanzetta del ripostiglio e vi fece quello studiolo che lo avrebbe veduto per anni e anni ora felice, ora pensieroso, ora affaticato colla testa ricurva sui libri. Lo studio lo assorbì gradatamente fino a che l’orticello si lamentò della sua mancanza. Anche per il padre le giornate si facevano più lunghe e monotone. Quando gli saltellava davanti e gli correva per i campi, era un’altra cosa, e riusciva a prendere dalla presenza del figlio una carica da non sentire mai la fatica. La madre se ne era accorta e spesso l’andava a trovare e, con una scusa qualunque, gli parlava del figlio, della sua carriera, della vita brillante che lo studio gli avrebbe aperto.
A scuola Riccardo era bravo e intelligente; era apprezzato da tutti per la semplicità e per la prontezza. Soltanto qualche compagno di città, invidioso, l’aveva soprannominato “Valentino vestito di nuovo” per i vestitini ben puliti e precisi, anche se un po’ passati di moda. Ma lui non se la prendeva, era felice dei bei risultati che sapeva ottenere in tutte le materie. A pieni voti finì le medie, le superiori e intraprese gli studi universitari. L’università non era nella sua cittadina e dovette abbandonare completamente la casa e i genitori. Frequentava il secondo anno, quando il padre morì in un incidente. La madre continuò nel duro lavoro dei campi e lui terminò gli studi. La carriera esigeva un lavoro lontano, ma la madre non volle abbandonare la casa, ricca di tanti ricordi. Riccardo si sposò ebbe un figlio; il figlio aveva appena tre anni quando gli mandarono a dire che la madre stava male. Partì, arrivò al suo capezzale con un fascio di rose. Sua madre pianse, l’abbracciò e questa volta fu lei a porgli una domanda: “Riccardo sei felice ?” “Hai trovato quello che cercavi nella vita ?” Le rispose soltanto che l’amava. Dopo due giorni morì e il figlio l’accompagnò nell’ultimo viaggio: un funerale che si perdeva nelle strade tortuose e bianche per il freddo tostato dell’inverno. Poi Riccardo ritornò al suo orto. L’edera si era arrampicata sulle viti e l’erba ricopriva le prode, che una volta erano ben custodite. Gli alberi gettavano una pallida sfumatura sulla terra appena toccata dalla luce stanca della sera e gli uccelli garruli facevano il loro rientro dalle svolazzate di un’intera giornata. Osservava tutto ciò che lo circondava; quella luce, i colori della terra, l’odore di campo, di erba fresca e rugiadosa, gli risvegliavano un dolce e melanconico sentimento. Poi avanzò lentamente verso le prode del padre. Udiva di nuovo il tonfo degli zoccoli delle bestie sulla terra smossa e udiva la voce del babbo che a maniche rimboccate, a testa nuda e a viso accigliato chiamava il figlio: “Vieni Riccardo è freddo!”
Come era grande quella terra, come era bella, come era ricca! Ogni zolla sapeva raccontare qualcosa.
“Riccardo dove corri !”
“Padre guarda un nido.”
“Lascialo stare, in gabbia prima o poi ti muoiono.”
“Non correre con quel cane!”
“Babbo, guarda il sole, sembra che dia fuoco alla terra.”
“Come sei sciocco.”
“Prendimi il secchio si abbevera le bestie.”
“Babbo perché i pampini sono verdi e i cachi sono rossi, l’uva è bianca, nera?”
“Vai dalla mamma e dille che siamo quasi pronti.”
I rumori dei passi, la voce del padre, quella della madre lo facevano andare più svelto; sembrava che andasse loro incontro. Quante verità scoprivi Riccardo! Tutti i perché si scioglievano ora come ghiaccio al sole. L’ansia nei problemi, la corsa nella vita, la fretta di arrivare a qualcosa di più vero, di più sicuro si spalancavano ora di fronte a quei suoni, al dolce sentimento che ti ingrossava nell’animo. I tramonti, il verde, le corse per i campi, l’orto, tua madre, tuo padre tutto era vero e sincero. Quel mistero che velava la natura e le cose, era una dolce poesia che ti arricchiva e ti stimolava a qualcosa di più alto. Come ti saresti voluto fermare a quei perché!
Contò di nuovo le sue viti e indovinò; sì!, erano giusto quelle. Poi si voltò; dette uno sguardo al cortile e si asciugò gli occhi col braccio alla vecchia maniera, come vedeva fare al padre, quando si asciugava il sudore. E partì col cuore gonfio, mentre suo figlio borbottava: “Che casa brutta papà!”.