Merlino

Non longa est fabula
Orazio

Veniva da lontano. Da un tempo lontano. I luoghi erano quelli di sempre: il giardino di un cottage del Connemara fra il verde perenne e il richiamo suadente dell’erica. L’odore del cielo poteva sentirlo con la solita, struggente chiarezza. Non sbagliava mai la percezione dell’ora: il mattino stillava profumo di muschio e la sera si scioglieva nell’afrore del fuoco di torba dei caminetti. Così era stato per tanto tempo, così sarebbe stato forse per sempre. Amava le certezze, la rassicurante ripetitività delle fasi lunari, ma più di ogni altra cosa amava lei, Tricia. Sguardo lucente, capelli di seta e un gatto nero da cullare: questa era la bambina che gli era cresciuta accanto e la cui immagine annidata nella memoria l’aveva accompagnato nel torpore viscoso di un tempo senza tempo.
Le nuvole basse, ricolme di pioggia, s’impennarono al vento e minacciarono di arruffargli il pelo albino, suggerendogli così la necessità di un riparo asciutto e confortevole che le pupille invano cercarono tra i muretti in pietra del sentiero: era cieco, come spesso lo sono i felini di quel colore, del quale egli in qualche modo “sapeva” di essere diventato.
L’istinto e la consuetudine in passato radicata di quei luoghi lo portarono al capanno degli attrezzi da giardinaggio da dove, ricordava, lo sguardo poteva spaziare fino al profilo delle Isole Aran, memoria solidificata di riti arcani. Il vento gli portò di nuovo il sentore di licheni di cui era intrisa la terra, quella stessa terra che, tempo addietro, aveva accolto il suo corpo ormai sfibrato dalla vecchiaia. Riudiva i singhiozzi accorati di Tricia, poco più che una bambina, e le parole che con rabbia inattesa le erano uscite di gola, quasi per punirlo di quell’abbandono, chissà perché sempre così incomprensibile per gli esseri umani: “Torna da me, Merlino, torna! Non ti permetterò di andartene per sempre: dovessi strapparti da là sotto e farti diventare tutto bianco, io voglio che tu torni!”.
L’ insolita minaccia si era stemperata in un ennesimo singhiozzo e nel gesto delicato di un mazzolino di trifogli posato con infantile trepidazione sulla lastra di marmo che il giardiniere aveva rinvenuto fra i vecchi attrezzi della rimessa allo scopo di coprire pomposamente, e con cristiana devozione, il tumulo della bestiola.

L’orizzonte tornò a schiarirsi rapidamente. Lo avvertì dalla repentina virata dei venti e dall’alleggerirsi dell’umidità nell’aria. Uno stormo d’uccelli sferzò la brughiera inabissandosi dietro le colline violacee e immaginò le scogliere chine sul proscenio dell’Oceano. La lastra di marmo sbeccato era sempre lì, viscida per il muschio e i vapori salmastri depositatisi giorno dopo giorno, lacrima dopo lacrima. Si acciambellò con cautela sorniona dopo aver saggiato ben bene con le zampe la consistenza erbosa di quel tappeto che sul fondo recava incise le lettere del suo nome, del suo nome di una volta. Dormì un’ora, un giorno, lo spazio di un sogno, finché fu svegliato da una voce ben nota, resa più vellutata dal passare del tempo. Aprì gli occhi, sollevò la testa, riconobbe il suo odore e persino quella vibrazione di gioia che lei, da bambina, provava sempre vedendolo.
Sentì una mano carezzargli con tenerezza incredula il pelo color della brina, sentì gli occhi scuri di lei immergersi nel lembo di cielo del suo sguardo muto.

 Da: Semi di senape. Racconti dal vero, MEF, prefazione di Antonio Melis, L’Autore Libri, Firenze 2007.