La ragazza con il cagnolino

L’avrebbero trovata riversa sul greto del fiume, con i sandali rosso amaranto sporchi di terra e i tacchi consumati da un girovagare convulso e senza meta. Non che non avesse cause precise il suo frenetico andirivieni, in città le conoscevano tutti, ammesso che “conoscere” sia il termine adatto per una malattia misteriosa e bizzarra che consuma il corpo dopo aver aggredito la mente. Il devoto Yorkshire che dalla non lontana infanzia la precedeva nella sua maratona cittadina, aveva i polpastrelli sfregiati da chilometri di asfalto o da ciottoli fluviali, da temperature torride o rigide, a seconda delle stagioni che senza tregua avevano annodato le loro vite in un viaggio ossessivo. Il veterinario, quando la bestiola, anziché precedere la sua padrona, cominciò a farsi trascinare al guinzaglio opponendo più resistenza di quanto il suo minuto corpo potesse consentire, proibì alla giovane di farla camminare, di modo che questa non ebbe altra scelta che continuare la sua via crucis con quella soffice creatura fra le braccia.
A volte zoppicava, inciampando nelle asperità del terreno, ma bastava un buon pediluvio o un altro paio di scarpe per farle riprendere il cammino, raramente interrotto da qualche impedimento di salute, un’ influenza o un disturbo di stomaco. O il sonno. Era questo, anzi, l’unica tregua attuabile nel corso delle interminabili giornate nelle quali né studio, né lavoro, né svaghi, né amicizie intaccavano quella che sembrava essere la sostanza unica e insostituibile del suo essere, la missione ineludibile della sua giovane vita: camminare.
La corporatura alta e affusolata, la lunga capigliatura nera spesso ondeggiante sulle spalle, attiravano gli sguardi dei ragazzi e allarmavano l’ istinto materno di qualche donna matura a conoscenza della situazione. Ma niente, il suo sguardo ostinatamente fisso alla meta da raggiungere non aveva mai indugiato, neanche per pura cortesia, in quello degli altri e le sue giornate, che scorrevano fra scenari urbani, cieli cangianti e pulviscolo d’anidride carbonica, di tanto in tanto erano intervallate da una visita al parco fluviale. Fu lì che, a un certo punto, cominciò ad accorgersi dei diversi profumi delle stagioni. Fino ad allora non sapeva dare un nome al gelsomino, né alle viole o alle ginestre e neppure riconosceva il petulante verso del passero dal grido della rondine, perché non parlava mai con nessuno né prestava mai ascolto a niente e a nessuno. Non sapeva distinguere le nutrie del fiume dalle donnole del parco, né i cigni dalle oche, né i pesci dalle rane. Tutto in lei era allo stato magmatico di una coscienza indecifrata e non organizzatrice.
Solo il freddo, o il caldo, la pioggia o il sole. L’asfalto, i ciottoli, la terra polverosa o il fango. E la fame. Il resto non aveva importanza, né poteva averla. Neanche il suo nome contava molto. Tutti in città la conoscevano come “la ragazza con il cagnolino”, quasi che senza quel cagnolino non sarebbe più esistita e quando il cagnolino smise di trotterellarle appresso, la gente cominciò ad allarmarsi. Notarono subito che lei lo portava in braccio e dapprima pensarono ad un deliberato cambiamento d’abitudine da parte della sua padrona, ma quando si diffuse la notizia dello stato in cui versava la bestiola, tutti si preoccuparono per quest’ ultima e smisero di pensare alla ragazza. Nessuno si accorse che aveva occhiaie e guance scavate, che il suo fisico era sempre più smagrito e curvo, che i piedi sembravano enormi sotto i polpacci scarniti.
Nessuno prestò attenzione al fatto che frequentasse sempre più spesso il parco lungo le sponde del fiume, perché per la gente normale è normale recarsi lì in cerca di un refrigerio all’arsura dell’estate, e la gente normale a volte non sa leggere certi segni che normali non sono in chi possiede altri parametri di normalità.
La giovinezza incapsulata nella larva del suo corpo cominciò a sentirsi prostrata da quel moto perpetuo e persino dal peso irrilevante dell’amato cagnolino. Qualcosa di simile alla tristezza cominciò a risvegliarle la mente, a suscitare in lei un inconsapevole paragone fra se stessa e il suo Yorkshire macilento, arruffato, con le zampette doloranti e gli occhi umidi di sgomento. Cominciò quindi a desiderare qualcosa che nutrisse i suoi sensi, qualcosa di impalpabile, visto che la sua impalpabile malattia le impediva di nutrirsi il corpo. Fu così che si accorse dell’alfabeto odoroso della natura e del suo declinare insieme alle stagioni. Desiderò quindi recarsi sempre più spesso in riva al fiume, anche perché lì, di tanto in tanto, poteva sedersi per riposare.
E i profumi del parco cominciarono a solleticarle l’appetito della mente e a stimolare in lei la curiosità di conoscere la natura. Lavanda, rosa selvatica, violetta, timo, questi nomi cominciarono per lei ad essere associazioni olfattive oltre che acustiche, perché, nel frattempo, la fame di sapere che l’attanagliava con consapevolezza sempre maggiore, la spingeva anche ad ascoltare le conversazioni dei passanti e sentì quindi una donna parlare di mentuccia per i carciofi, vide un vecchio indicare le bacche di ginepro con cui aromatizzava la grappa e una ragazza strappare foglie d’alloro da portare a una vicina per profumare l’arrosto. Un giorno sentì uno studente parlare del fiore dell’oleandro e scoprì allora che sotto la sua fulgida fragranza scorre la linfa di un veleno di mitologica memoria.
Da quel momento non ebbe che un desiderio: nutrirsene per alimentare così la sua bellezza, sebbene sapesse ormai quale sarebbe stato il prezzo. Poco le importava. Fino ad allora, nella sua breve gioventù non aveva fatto
altro che pagare un pegno perpetuo a quella assurda malattia che la faceva sentire brutta e deforme, lei, che invece era bella e statuaria.
Smise di camminare un pomeriggio assolato, lungo il greto del fiume. Sulle labbra, il profumo dell’oleandro.