Il giardino dell’Eden

Fa freddo qui. Non mi piace. Mi guardo intorno e vedo solo il buio. Il silenzio, che per assurdo grida, è la parte più rumorosa di me. Sono come un frutto acerbo appeso ancora al ramo, o come una casa con solo fondamenta.
Pochi sono i mattoni che hanno composto la mia vita.
Ricordo a fatica ciò che è stato, ma so di non potermi rintanare nell’oblio. Pochi passi ancora, e affacciandomi sul passato vedrò con occhi nuovi quanto è accaduto.
Aveva desiderato quell’appuntamento più di ogni altra cosa. Mesi e mesi a spiarmi, ad entrare nella mia classe con scuse banali, a telefonarmi solo per sentire la mia voce e poi mettere giù. Da settembre a gennaio lo ignorai, ma allo spuntare del carnevale d’improvviso la mia attenzione fu rivolta a lui, soltanto a lui. Ed esultò. Mi disse che da quel momento non aveva più gambe né braccia, né corpo… ma solo ali! Io, per tre giorni, rimasi come chiusa in un limbo, e quando quel sabato arrivò, mi convinsi che da allora la mia vita avrebbe assunto forme fantastiche e speciali.
La serata in discoteca fu diversa dalle altre. Tutti mi guardavano compiaciuti perché, finalmente, io piacevo a me. Ed era solo merito suo. Mi aveva scelta, e mi corteggiava sorridendomi, ballando con me, stringendomi a sé. Non ricordo fino a che ora restammo lì. Non conoscevo più il tempo e nessuno poteva rompere quell’incantesimo. Quando mi chiese “vieni un po’ da me?” non ci trovai nulla di strano. La corsa in moto fino al suo portone e poi quella per le scale. “Non dormiranno a quest’ora i tuoi?” chiesi fuori la sua porta, ansimando.
“No, sono in Australia. Siamo soli.”
Il suo braccio mi tirò all’interno. La porta scivolò sui cardini e si chiuse. Un po’ imbarazzata restai all’uscio, stretta nel cappotto, con il cappello in testa. Lui si avvicinò, guardandomi con occhi diversi. Una leggera ansia mi prese allo stomaco. C’era qualcosa di malvagio, ora, nel suo sguardo. La sua mano divenne una morsa, e mi trascinò via dall’ingresso, spingendomi in camera sua. E qui sul letto. I miei occhi si dilatarono dalla paura. Lui avanzava, gigantesco, mostruoso, e in meno di un minuto si era aperto i pantaloni gettandosi su di me. Un urlo strozzato mi uscì dalla gola. Disperata gridai “No… no ti supplico… NO!” ma lui mi tappò la bocca con la mano, mentre con l’altra mi tirava su il cappotto e giù le calze. E iniziai a prenderlo a pugni e calci, stringendo le gambe affinché non abusasse di me, ma lui mi soffocò con la sua lingua, mentre con le mani e con il membro faceva ciò che voleva…
Dolore… pianto…vergogna…
Quel corpo piccolo, quel seno spuntato da poco, il mestruo arrivato nella mia vita da neanche un anno, e io ormai corrotta per sempre, nell’anima e nel corpo. Ad un tratto, esausta, mi abbandonai. La nausea saliva malvagia. Qualcosa di caldo iniziò a scorrere sulle mie gambe. Lui rotolò via dal mio corpo, ed io corsi in bagno a vomitare. Tossii e piansi, guardando le mie mani sporche di sangue, mani da adolescente, con le unghie un po’ mangiate e una piccola fedina d’argento anni ’70 all’anulare. Allo specchio osservai, sconvolta, che avevo ancora il cappello di lana infilato sulla testa.
Allora uscii fuori, barcollando verso la porta. La aprii, e sentii la sua presenza dietro di me. Non mi voltai, e avanzai verso le scale. Le scesi lentamente e lui dietro di me. Arrivati nell’androne, la sua voce mi arrivò come un’eco.
“Dove vai?” Mi chiese secco.
“A chiedere aiuto…” risposi, senza guardarlo. Quindi aprii il portone e avanzai nel giardino.
Ecco, ora tutto mi è chiaro. Da qui vedo il suo viso furibondo.
Gli occhi fiammeggianti hanno un lampo, e una lama, luccicando all’unico lampione, compare tra le sue mani. La tende verso l’alto e la fa cadere giù, tra le mie scapole, colpendomi una, due, tre volte.
Osservo il mio corpo senza vita accasciarsi sull’erba come un sacco vuoto. Lui mi tira un calcio ringhiando “accidenti a te!”. Quindi pulisce il coltello e ritorna su, sbattendo il portone.
Ho vissuto troppo poco tempo per raccontare altro.
Ero fragile.
Avevo solo quattordici anni.