Da: Colloquio con il mare e con la vita

La barca è un fuscello

Sono partiti dalle coste opposte
per venire in Italia. Questo è il sogno.
Una terra di pane e di lavoro.
Una vita diversa,
lontana dai regimi che t’impongono
soltanto la miseria. Il mare è largo.
Sembra infinito il mare. Ma non c’è
né dubbio né paura. Là la vita,
la dignità, il benessere, l’onore.
Ma la barca è un fuscello e tenere
tutti quei disperati è un’avventura.
S’infuria il mare, l’onde si accavallano,
si leva imprevedibile il libeccio,
il fuscello dimena, è sotto l’onda:
riappare, scompare, riappare. È sommerso.
E la pietà del mare non esiste.
Resta un foglio di carta a galleggiare
assieme a dei detriti; vi si legge:
“Cara mamma, ti scrivo da una barca
dove siamo accalcati in più di cento
vicina ormai all’Italia. Là mi attende
una vita sicura. Manderò
a tutti voi i risparmi del lavoro …”
Ma il resto è scolorito, non si legge.
È certamente il mare e qualche lacrima
a mietere parole.
Come era bello il cielo. All’orizzonte
s’intrecciavano le nubi con i fuochi
di un sole che impazzava.
Come era bello! Come era bello il cielo!

 

Non chiedermi perché

Non chiedermi perché sono venuto
a trovarti di nuovo. Sarà forse
perché qualcosa provo
ancora dentro me.
Sai!, non è molto che pensavo
all’ultimo saluto. Ti ricordi?
Era sul mare, il cielo cinerino
di un settembre un po’ stanco accompagnava
un melanconico addio. Eppure
io non credevo che un lungo patrimonio
potesse rivelarsi così fragile
come la bruma pallida d’autunno.
Il cielo si rompeva ad occidente
e il sole grosso e fervido, alla sera
di quel giorno impossibile, tingeva
il tuo volto diverso. Mi ero sperso.
Non ritrovavo più la strada amica,
la strada di una vita. Sono qui.
Non chiedermi perché. Sono venuto!
Ho ancora dentro l’anima
il sole di una sera,
il mare quasi calmo, un volto stanco,
e una bàttima lenta a misurare
un tempo troppo pigro per chi soffre.
Sarà forse l’amore. Chi lo sa.
Eppure c’è qualcosa che ha guidato
quest’animo rigonfio di ricordi
tra i fiordi del passato. Ma non chiedermi
di più. Accetta un mio saluto. E vado.
Davanti a me c’è un guado,
un guado che riporta
quest’uomo ormai attempato
all’altra sponda.

 

La stagione del mare

Imbionda l’elicriso sulle dune
tra l’arsa tamerice ed il salmastro
brontolìo della bàttima. Mi accosto
all’agave fiorita. Di novembre
s’infiggono campanule di latte
nell’azzurro del cielo. A simulare
spavaldi guizzi estivi c’è una vela:
taglia l’immenso e scivola leggera
sull’acqua color lauro. Manca Venere:
non esce il suo fulgore incastonato
nel mare di Zacinto. Vieni Adone!
Chiama la dea audace in questo quadro
profumato d’elleniche memorie.
Ma tu non hai potere che in anemone
puoi solo ricordare il pianto sacro
sulle tue spoglie fattesi divine.
Questo novembre pregno di marina
mi avvolge e mi trascina in ricordanze
evase dall’oblio. E ti respiro
mare mio mare, autore di fuggiaschi
abbracci giovanili. Non è l’ora
di stagioni diverse. È una sola
la stagione del mare. E se d’inverno
lo vivi ancor di più il suo profumo,
lo senti più vicino il suo colloquio:
ti parla quando è solo.
Ancor di più la sua parola incide
l’animo mio disposto ad assorbire
la sua voce profonda ed il suo grido.

 

Padre

Per chiederti perdono, padre,
sono giunto a questo marmo ormai ingiallito
dai rivoli del tempo. Qui seduto
ho voglia di restare assieme a te,
per parlare, parlare
di un’ora che sfuggì. Sotto questi archi
vedo immagini nuove,
di cui conosco poco. Tu con loro
come ti trovi, padre? Tu che sempre
hai fatto vita schiva. Ma stamani
io sono qui per chiederti perdono
di non averti detto mille
e ancora mille volte del mio bene.
Per non averti detto le parole
che son rimaste in aria per la furia
che tradisce la vita. E il tuo perdono
mi giunga, padre, per non averti chiesto,
fino in fondo, le piccole carezze
di bambino, cresciuto indifferente
nella selva degli uomini;
per non averti detto fino in fondo
vicino al fiume che scorreva lento
verso una foce che ingollava i giorni:
“Giochiamo assieme, padre!”.
Perdono padre se a volte le labbra
restarono serrate come pietre.