Buon giorno libertà – Il pentito

A chi ha perso la vita
per difendere un ideale di civiltà e giustizia-
Magistrati – Forze dell’Ordine – Civili inermi.

Il tempo, in questa biblioteca del carcere, scorre con passo marziale.
Dalla mia cella vedo solo un cenno di cielo, e il mondo lo sento come un latitante che non ne può più delle sue fughe, ne avverto i suoni, ma è come se nascondesse il volto in questa maschera di condanna. Dalla finestra della biblioteca invece la prospettiva è più ampia, vedo la società che se la suona e se la canta, incurante delle ‘cause’ che perde nei suoi percorsi: di quelli come me, per esempio, che deragliano e non sanno più rientrare.

Qui svolgo mansioni di bibliotecario, da circa un anno; ogni mattina nella strada adiacente l’Istituto di pena, osservo i movimenti frenetici della società all’esterno. Sono flussi inquieti di un grande alveare che s’agita a volte in modo convulso, io mi sento quasi un estraneo in questi perimetri, un calabrone in uno sciame d’api, una presenza in esilio; e quel recinto di filo spinato è proprio una frontiera, quasi un altro stato con giurisdizione speciale.
Davanti ai cancelli della scuola Elementare arrivano i genitori con i bambini, e queste immagini hanno il potere di sciogliere tutti i sassi che ancora mi porto dentro; mi commuove la vecchietta che ogni mattina trascina la borsa della spesa con un carrellino, e infine una coppia di persone mature, che alle nove esatte si saluta con un bel bacio davanti al cancello dell’Università.

Penso che lei sia qualche docente; m’avventuro oltre le immagini e corro ad inquisire le vite private di questi avventori, me li figuro secondo i flash ai quali furtivamente assisto, come stessi rubando in chiesa… Io che nelle retrovie della mia esistenza ho ben altre ragioni per provare sensi di colpa..

Non si può esonerare il mondo chiudendolo in una stamberga della mente, ed esso non è poi così inerme e attraente come sembra; può presentarsi anche come una serpe che tenta, istiga a cadere nell’erta, e io sono caduto, per fame, disincanto verso una vita che mi obbligava a percorrere strade piene di chiodi. Così ha sobillato i miei ideali.
E ho perso anche te, Sofia, t’ho persa irrimediabilmente il giorno in cui le belve del clan, dopo il mio arresto, appresero che avevo deciso di collaborare con la giustizia, per questo ti colpirono a morte in modo vile, per difendere ‘l’onore’, l’altra divinità, dopo il denaro.
Io per loro resto un delatore, un rinnegato. Per la legge sono un collaboratore di giustizia, per la stampa e i giornalisti un pentito, per la gente un killer da sedia elettrica, per la mia famiglia una disgrazia con fattezze umane che ha saltato gli steccati del lecito, della morale comune.
Ora posso contare su tutti i benefici di legge previsti per i collaboratori di giustizia, legge che risale agli anni ottanta, la 304, in seguito integrata con tanti altri articoli.
Legge provvidenziale, che ha permesso di salvare tante vite, e non solo tra le forze dell’ordine e la magistratura, ma anche nella società civile. E dire che Traiano è stato il grande precursore di questi interventi legislativi… Il suo decreto, emanato per limitare la corruzione, lo definì ‘Bona Vacantia…’
Per dire che l’animo umano, nonostante i salti generazionali, non ha cambiato l’inclinazione a delinquere..

Ma io chi sono veramente? Certo un dissociato ora, uno che ha deciso di ripulire le proprie strade, scaraventare nella scarpata del passato l’orma della colpa, che non è un semplice sasso ma una montagna; e allora metterò i cingoli a questa montagna e la sposterò.

Intanto ho perso te, Sofia, e nessuno potrà restituirmi una presenza che illuminava i miei giorni.
Sei stata la vittima immolata negli altari capovolti del crimine, prezzo che la legge non chiedeva per i suoi riscatti.
Ma la mafia è un lago limaccioso e torbido, male allo stato puro.
La scelta di collaborare non è opportunismo, non per me; certo le circostanze hanno favorito l’apostasia di un ‘credo’ che non è mai stato abbastanza solido. La coscienza non è morta sul campo, ha presentato istanze e movimenti di ragione che io ho inserito nelle poche voci attive del mio bilancio.

Nel corso dei primi anni d’attività nel clan, sono stato mandato all’estero in missione speciale, a seguire un corso d’artificiere. E questa è stata la mia ‘specializzazione’: predisporre ordigni sofisticati per commettere. Ero uno degli esperti e svolgevo il mio compito con cinica perizia.
Io che ho sempre amato la vita ho offerto le mani al servizio della morte, e non fallivo.

L’abbraccio di mia madre lo scorso anno, e le sue parole fradicie di lacrime, mi hanno davvero restituito la giusta valuta della ragione. E non ha usato mezzi di ricatto per farmi pesare la morte di mio padre, avvenuta di recente, e neppure la loro vita blindata, costretti a nascondersi come ladri, protetti dallo stato, per sfuggire gli agguati del clan.

Mio padre soffriva da sempre di una seria patologia renale, ma non posso ignorare che io sono stato un serpente dentro il suo sangue, gli ho avvelenato il pensiero. E non dimenticherò il giorno in cui tornai a casa dopo mesi d’assenza, proponendomi a loro, umile gente di periferia, come un esaltato.
‘Andrete via da questo tugurio – dissi – una casa grande e comoda vi aspetta, queste sono le chiavi…’
‘Non voglio queste chiavi! – tuonò mio padre pieno di sdegno, col volto in fiamme dalla collera – non andremo mai ad abitare in una casa costruita con sangue e mattoni! Non permetterti più di portare un centesimo qui dentro, finché io vivo…’
E mi bastò questa requisitoria, allora me ne risentii e non mi feci più sentire per quasi un anno. Anche la sua morte assedia la mente, e spezza le mie ore come una feroce mannaia; nel mio contenzioso morale c’è anche questo.

Da circa un anno svolgo mansioni di bibliotecario, qui in carcere; prima che il clan asservisse ogni mio volere, frequentavo il secondo anno all’Università, ma i suoi tentacoli, le sue spire perverse, m’hanno stretto in una morsa senza scampo.
Tutti i privilegi altro non erano che sottili dannazioni, e il denaro è stato il Caronte più compiacente perché mi ha condotto in ogni antro di quell’inferno.
Io uccidevo in modo ‘pulito’, non ho mai premuto un grilletto, solo i bottoni di un telecomando che causavano violente deflagrazioni per colpire meglio i bersagli o per devastare beni materiali di gente che aveva il vizio d’essere troppo onesta.

Ho seminato tanta menzogna, mentendo a tutti, anche a me stesso. Ed essa ha steso sotto i miei piedi un tappeto di seta, lungo fino alla resa. La menzogna è una creatura spaventevole.

Avevo un altro identikit psicologico, una personalità più incline alle attitudini del crimine, con una ‘conformazione’ basata su altri cardini morali, e una gerarchia di valori che avevo revisionato completamente. Un altro uomo, figura incerta di un modo d’essere surrettizio che aveva già una causa pendente con la società e un conto acceso con la giustizia; se per caso l’uomo che ero stato osava comparire in quei perimetri di filo spinato in cui avevo costretto la volontà, veniva schiacciato, deriso, costretto all’ombra.
Calpestare la verità impediva ogni svolta.
Io non esistevo, la bussola dell’orientamento era in balia di quelle forze inesorabili, irriducibili, che governavano ogni distretto del mio intimo, rendendomi un giullare che aveva pure l’illusione del dominio di sé e della circostanza.
Un bluff d’uomo, destino corrotto e truccato; una farsa. L’altro ‘me’ era negli abiti che portavo, maschere per dissimulare e prevalere sulla parte migliore scaraventata in un tugurio della mente.

Non si può sfuggire a vita la collera della Giustizia; credo esista un equilibrio esatto tra bene e male, sorvegliati in qualche segreto ambulacro del Cosmo, e se non è la legge a perseguire il criminale, lo farà quell’entità irrazionale che definiamo destino, il quale, per fini che non ci competono, secondo il volere di un disegno superiore, riporterà la giusta equidistanza fra questi terribili poteri che ci sovrastano.
Se la società ha deciso di tendermi una mano in virtù del mio ravvedimento, attraverso un parziale condono, e riconoscendo l’estrema importanza delle mie rivelazioni, io non sprecherò l’opportunità di tornare ad essere un Uomo; intanto, lentamente, perderò i peli e la coda della belva che sono stato, spezzando gli artigli e le zanne, e chiudendo infine le fauci al delitto.

E’ una magnifica mattinata di sole, le estensioni della libertà, all’esterno, m’irridono. Vedo la gente transitare sul viale, ostentare la sua libertà, senza sapere di questo valore immane, o capire che è l’equatore della vita, centro d’ogni diritto.
La morte mi gira intorno furtiva in questa spettrale solitudine; pensando all’assassinio di Sofia, con enorme fatica, cerco di persuadermi che non tutto è stato vano; la ribellione mi ha permesso di strappare un sorriso alla morte e l’ho chiamato libertà.