Ars, Techne, spirito creativo

Kant, nella Critica del Giudizio, distingue l’intelletto archetipo, divino, cui si addice l’attività creativa, dall’intelletto ectipo, umano e finito, non creativo, cui si addice l’attività discorsiva. La distinzione mi trova d’accordo a metà, in quanto ritengo che i due intelletti, totalmente diversi tra di loro, appartengano comunque entrambi alla natura umana. Troppo allegramente si sorvola, a mio parere, sulla considerazione della scintilla divina che l’uomo ha con sé. Se egli fosse ad una sola dimensione, infatti, chiuso negli orizzonti razionali-emotivi della sua personalità, non avrebbe la possibilità di porsi allo specchio, né di potersi giudicare, scindendosi (giudicato e giudicante) pur restando misteriosamente unito dentro di sé. Si dirà che l’uomo non fa quasi mai autocritica (e sta indubbiamente qui l’origine di tutti i suoi mali), ma la possibilità gli è stata data e lui comunque la esercita, quando e come vuole o può.
L’uomo ha la facoltà di pensare sia in fotocopia che in originale. Se si affida al proprio intelletto arcano e attinge alla propria più originale identità, egli diviene indubbiamente creativo. Se invece si affida al proprio ego razionale-emotivo, tende a divenire convenzionale e discorsivo, sempre più livellato sul piano orizzontale della praticità. Si dirà pertanto che l’optimum sta nel trovare un equilibrio tra i due poli, ma l’equilibrio è possibile solo attivando l’intelletto arcano con un lavoro autocritico sull’ego razionale, teso ad aprire varchi alla rivelazione dell’alter ego, dell’essere alare che vive nell’uomo al di fuori di tutti gli schemi, depositario delle valenze più originali ed autentiche della personalità. L’intelletto archetipo, consapevole della dualità dell’essere, non chiede l’annullamento dell’intelletto razionale, ma semplicemente ne chiede la verginità: la liberazione ossia dalle panie, dalle storture e dalle malie da cui si lascia facilmente avviluppare nella sciocca pretesa di poter viaggiare nell’unidimensionalità.
La creatività è l’epifania del divino. Essa non appartiene solo al grande Vertice, come per pigrizia siamo portati a pensare, magari riservando agli umani una sorta di creatività minore, dedita alla ricerca del bello formale, dell’arido e vanesio tecnicismo o della commozione fantastico-emotiva. Dio crea l’universo, o meglio scopre l’universo che nella sua mente c’è già. L’uomo crea scoprendo le proprie coordinate divine, la propria umiltà, la propria figliolanza e la propria fratellanza cosmica: quei meccanismi mentali, ossia, capaci di farlo girare secondo ingranaggi universali. Ci troviamo comunque nel territorio dello scavo interiore e della profondità. Nessuno crea dal nulla, neppure il grande Artefice, che non è un illusionista e tira fuori le cose dal profondo di se stesso, dal proprio abisso interiore, dove il nulla e l’essere coabitano in serena  armonia.
Creare pertanto non è altro che un trovare cose che già esistono nell’interiorità, un portarle alla luce (invenire nel senso etimologico, inventare). In pratica, per l’uomo, significa attingere al mistero universale che vive dentro di sé. Autocritica, dunque. Macerazione interiore, ricerca: è questo il presupposto del creare, come di ogni altra attivazione del sesto senso (veggenza in prima fila). Al bando, da un lato, l’intellettualismo spocchioso; ma al bando, dall’altro, anche il gratuito spontaneismo. La vera arte, come la veggenza più pura, non hanno nulla a che fare con la spontaneità. Esse attingono ai valori innati, ai principi e non ai pregiudizi, attraverso un lavoro autoanalitico, anamnestico, di particolare rilevanza e intensità. Il sesto senso non è il regno dell’arbitrio, come la perversione razionalistica indurrebbe a pensare (se mai è vero il contrario).
Esso è il faro che dà luce e senso alla realtà. Senza di esso, non potremmo vivere nell’equilibrio, se è vero che equilibrio è bilanciamento di pesi contrapposti. La ragione, da sola, non può garantire l’equilibrio, mentre il sesto senso è armonico ed include totalmente la ragione dentro di sé. La ragione, se umile, ha un sano ruolo da svolgere: quello di entrare in confidenza con il mistero per riceverne informazioni. Nessuno può aggredire il mistero con le armi presuntuose della razionalità, ma l’uomo può diventare amico del mistero attivando il sesto senso che vive dentro di sé. Se vogliamo, è il programma del conosci te stesso socratico, dove tuttavia alla conoscenza vengono attribuite valenze spiccatamente introspettive, anziché dialettiche.  Ed è da qui, da questo risveglio interiore degli archetipi, che ha inizio la storia dello scibile.
Nei miti aurorali di qualunque processo storico (parliamo di mitopoiesi, non di mitologia) troviamo in nuce l’anticipazione dell’intero sapere: l’arte, la letteratura, la filosofia, la scienza, la religione, e quant’altro, il tutto racchiuso in formule semplici, elementari. Nei miti sorgivi si rivela il mistero delle origini, non intese nel senso storico o preistorico, bensì archetipo, metastorico: origini slegate dal tempo e come tali perennemente aleggianti nel tempo, nell’attualità. E’ da lì, da quella primitiva spinta che prende avvio ogni processo storico, ogni sviluppo della cultura razionale. Questa poi, gradatamente, se ne discosta, se ne allontana, se ne dimentica fino al massimo oblio che coincide con il risveglio inevitabile, dal momento che alla fine di un ciclo non si può che tornare al principio. E viceversa, in una pulsazione perenne che non ha il senso della ripetizione, bensì quello del rinnovamento dei valori dell’umanità.
Alle origini di qualunque processo storico troviamo sempre un’età dell’oro dove gli uomini vivono in saggezza, grazia ed armonia, immersi in quell’incanto che sa farsi carico del disincanto, senza escluderlo dai propri confini. Adamo, nell’Eden, non ha ancora separato il bene dal male, per cui ogni opposto può vivere con l’altro in armonia. E’ quello il momento del sesto senso e della creatività, dove l’arte, la religione, la scienza e la filosofia si presentano come un tutto armonico, non essendo ancora le varie branche entrate in conflitto egemonico tra di loro. Uscito dall’Eden e dalla padronanza autocritica, Adamo poi sprofonda nelle sabbie mobili del razionalismo critico, che tutto divide in modi irreparabili: il bene dal male, il maschile dal femminile, eccetera, fino a seminare zizzania nelle varie branche dello scibile a discapito dell’unità.
Tutto nasce dall’uomo, ma l’uomo finisce per farsi succube di quello che lui stesso crea, capovolgendo il sano rapporto tra i mezzi e i fini. Il fine della cultura è l’uomo, e non viceversa, ma le varie branche dello scibile esplodono in contrasti insanabili, istituzionalizzandosi in poteri contrapposti con il fine di asservire, anziché servire, l’umanità. Deve essere così, indubbiamente, affinché dall’oblio possa rinascere il risveglio di una nuova età dell’oro, di una nuova saggezza armonica e di una nuova creatività. Un’altalena di morte e rinascita che non appartiene soltanto alla storia collettiva, bensì pure a quella delle singole personalità. Ma se si ha a cuore l’unità dell’uomo, non si può fare altro che favorire la cultura del sesto senso, unica a garantire un sano incontro tra le origini e il divenire, tra l’intelletto archetipo e la razionalità.
È dall’ascolto dell’essere che viene la spinta all’azione creativa, a quell’operatività sul piano pratico che non si deve ritenere distaccata dagli archetipi, dalle fonti da cui si attiva. E si sbaglia anche a credere che l’ispirazione possa escludere che ci sia un lavoro da svolgere nel piano razionale. Non si deve pensare al poeta (tanto per fare un esempio) come a colui che riceve la Musa oziando tra gli augelli ed i fiori olezzanti di un prato. Ai nullafacenti nulla regala la Musa. Occorre lavorare per ricevere. E non soltanto lavorare su se stessi, a livello introspettivo, ma anche a livello dell’espressione formale. La tecnica é fondamentale, purché si riscoprino le valenze altamente spirituali della téchnè e del lavoro in generale, ignobilmente degenerati a livello materialistico.
Il lavoro è anelito spirituale, è creatività. E creatività è mettere le mani in pasta nei processi creativi del creato. L’uso della mano è fondamentale, ma occorre che l’uomo si lasci guidare la mano dall’essere spirituale che gli vive dentro, anziché pretendere che la sua mano possa agire da sola. E’ l’immagine simbolica (la Musa) a dettare la forma con cui vuole apparire. Raramente il poeta è consapevole delle figure retoriche, delle allitterazioni, delle regole metriche che compaiono nelle sue poesie, così come non è consapevole dei contenuti. Il processo creativo è inconscio e, se il poeta è autentico, rifiuta di costruirlo a tavolino. Tutt’al più concepisce un labor limae come adeguamento dell’espressione formale all’impareggiabile splendore ispirativo.