L’esperienza del dolore in Giuseppe Ungaretti

(il mistero che lega la storia alla nascita della parola)

 Nell’ambito dell’incontro conclusivo della Rassegna (1) – curata dall’amico scrittore Franco Campegiani presso la Sala degli Specchi del Comune di Frascati -  che si proponeva di analizzare il rapporto tra il Mito e la Storia alla luce di una nuova, auspicata e, lasciatemi dire,  improrogabile premura dell’uomo del XXI° secolo, mi è stata offerta l’occasione di entrare nel vivo di una poetica da sempre amata per la forte carica di una parola che ritengo innovativa e conservativa insieme.
      Basterà riflettere su ciò che il Poeta afferma riguardo alle preoccupazioni che lo impensieriscono nei primi anni del dopoguerra: “Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria a me pareva, invece, un’àncora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. . . Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo. . . era il canto italiano. . . nella sua costanza attraverso i secoli, . . . attraverso voci. . . così gelose della propria novità e così singolari: . . . era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori. . .”.
      Una pretesa di recupero? Non sfugga, però, quell’umiltà di lettura che è il segno chiaro di una consonanza, della volontà “di accordare – come sosterrà più avanti – in chiave d’oggi un antico strumento musicale che, reso così di nuovo a noi familiare”, possa assolvere il compito di accompagnare un canto ridestato e tonificato nella sostanza.
      Ma quale rapporto hanno queste considerazioni – sia pure di carattere formale (tornerò sull’argomento) – con quella relazione che lega l’importanza del Mito al corso della Storia?
      Per comprenderlo, gioverà ricordare che Ungaretti è stato poeta e uomo del suo tempo, che “da molto vicino ha provato l’orrore e la verità della morte” e che, “come ogni uomo moderno di buona volontà”, ha costantemente cercato “di riconciliare il vero col mistero”.
      Il mistero: ecco il termine di congiunzione tra l’effimero e l’eterno, tra la minaccia (ancora attuale) della fine di una civiltà e le “ragioni di una possibile speranza nel cuore della storia”.
      “Il mistero c’è, è in noi – avrà a dire -. Basta non dimenticarcene”: la sua intuizione, però, non si limita a questo perché, da poeta, egli sente la necessità di qualcosa che al mistero si contrapponga, non per darne la misura ma, lasciandolo inconoscibile, per esserne la manifestazione più alta. E cosa c’è di più che accondiscenda a tale esigenza, cosa è in grado di opporsi maggiormente e di rispondere a siffatte prerogative se non la parola, il suo valore, l’arché della sua originale potenza?
      Siamo al dunque, al punto in cui, su qualsiasi piano la si voglia affrontare, la questione riconduce alla riproposizione del Mito: il Nostro si pone in ascolto di quell’antico strumento musicale, accordato in chiave moderna, per mettere in atto, appunto, una fattiva opposizione, per schierare sul campo la crisi della lingua e, dall’interno, capirne e condividerne la sofferenza; per elevarla nel buio, “ferita di luce”. Soltanto una parola che sgorga nel segreto dell’anima, ridotta quasi al silenzio, può, d’un balzo, subitanea, colmare l’immensa lontananza che separa la memoria dall’innocenza.
      E “il poeta nuovo vorrebbe udire (nel suo povero canto), tornata nel mondo la voce di quella grazia. Per questo ha anche gridato. Per questo ha anche pianto”.
      Quest’ultima, illuminante rivelazione, di cui Ungaretti ci fa partecipi, mi porge il destro per iniziare l’esame della raccolta che più mi preme sottolineare.
      Apparso con le date ’37 – ’46, Il Dolore racchiude in dieci anni un unico, smisurato grido d’angoscia: una parentesi, certamente, che si apre e interrompe – in qualche modo – la continuità del normale svolgimento dell’ispirazione e tuttavia, proprio per questo, riveste un’importanza significativa e ineludibile, se corretto vuole essere l’approccio ad una poetica tanto vasta e profonda.
      Mi spiego: l’esperienza, che il Nostro è costretto a fare con Il Dolore, è, per l’appunto, quella dell’allontanamento, ma di uno scostamento, si tratterà, così fecondo da dare luogo ad uno degli slanci suoi più alti, più audaci e più maturi.
      Ho parlato di coercizione, ed è innegabile che siano stati gli accadimenti esterni, il loro incalzare, a procurare “il grido” (nel ’37 la morte del fratello, due anni dopo quella del figlio Antonietto, poi, lo scoppio della guerra, la resistenza, l’occupazione), ma nulla avviene per caso, tanto meno ciò che lo spirito, l’essere si pone come limite lungo il suo percorso esistenziale.
       “La verità, per crescita di buio. . .” – verrebbe da dire – riprendendo l’ultimo frammento della successiva Apocalissi, diretta a nuova tematica ma senz’altro figlia della precedente conoscenza.
      Con questi presupposti, nasce Il Dolore; ed è poesia dell’intensissimo sentire, un crudele, immenso sentire che, fin dagli esordi, con quel Tutto ho perduto, mette a nudo una disperazione abissale, “che incessante aumenta”.
      Tant’è: senza dimenticare – per dirla con Elitis – che il poeta è “l’inconsolabile consolatore del mondo”. Già – e vale anche per Ungaretti in quel delicato periodo della sua vita -, senza saperlo, attraverso la sua sofferenza, egli porta il conforto dei suoi versi tra le persone che li leggono, e non solo (si pensi al rematore “stremato, inerte”, per il quale “Cadere forse fu mercé. . .”, de Il tempo è muto).
      Ma, come detto, è questo il canto del distacco dal più aperto lirismo che aveva caratterizzato le prove antecedenti: la poesia, qui, si spoglia completamente di ogni congettura di costrutto mentale per concedersi totalmente al pathos ed alla sua tensione. Ne sono altissima testimonianza i frammenti di Giorno per giorno, consacrati alla memoria del figlio perduto alla tenera età di nove anni: “Mai, non saprete mai come m’illumina / L’ombra che mi si pone a lato, timida, / Quando non spero più. . .”, e ancora “In cielo cerco il tuo felice volto, / Ed i miei occhi in me null’altro vedano / Quando anch’essi vorrà chiudere Iddio. . .”.
      Sono passi che denotano chiaramente una piena adesione della scrittura ai complessi e penosi stati d’animo provati; un contatto, un attaccamento unico e indissolubile. È questo il tratto peculiare, ciò che rende Il Dolore un’opera essenziale nello sviluppo dell’intera poetica ungarettiana: allo scantonare, da un punto di vista formale, corrisponde una connessione, senza riserve, sul piano dei contenuti umani, alle richieste che vengono dal cuore.
      La parola che ne scaturisce è, dunque, davvero ermetica ma – attenzione – non nel senso di una qualche, non ben definita, incomprensibilità; al contrario, se di chiusura è, qui, lecito ragionare, è soltanto per l’occorrenza inalienabile di concentrare, di condensare nella parola stessa lo strazio smisurato che si prova.
      Come non riallacciare, allora, anche l’esperito attraverso Il Dolore a quel bisogno di recupero di cui s’è detto in apertura; come non cogliere, anche dentro la sua parentesi, l’eco profonda e originaria del Mito?
      Mi sovviene – e non posso fare a meno di citare – un passaggio tratto da Nelle vene, in Roma occupata: “Il roseo improvviso tuo segno, / Genitrice mente, risalga / E riprenda a sorprendermi; / Insperata risuscitati, / Misura incredibile, pace. . .”.
      Ecco: è questo risalire dal fondo, questa resurrezione inattesa di un principio, di un simbolo, a dare la misura dell’illimitato. E non si cada nell’errore di un assurdo rinvio alla razionalità, ché non è a quella “mente” che il Poeta si riferisce bensì ad un’intelligenza, ad un pensiero, ad una memoria pura e incontaminata. Il distico, che funge da chiusa: “Fa, nel librato paesaggio, ch’io possa / Risillabare le parole ingenue”, lo conferma e ne rafforza magnificamente la vitalità.
      Si dirà: e la Storia; quanto tutto questo può realmente incidere nella Storia, e quanto, della stessa, potrebbe essere riletto alla luce mitica del mistero? Ungaretti – come pochi, forse come nessuno – è riuscito ad intenderlo: ha capito (vale ripeterlo), da uomo del suo tempo, che soltanto il segreto della parola opponendovisi o, se vogliamo, relativizzandosi avrebbe potuto, se non altro, esprimere l’inafferrabile e più grande mistero dell’Essere.
      Dopo aver pianto, dopo aver ascoltato “il silenzio di tante ingiuste morti” ed esortato al risveglio “l’angelo del povero”, dopo il grido (il suo, si, d’amore) “Cessate d’uccidere i morti”, di Non gridate più, la Storia è cambiata: oh, certo, non nei fatti, non nella squallida e disgustosa realtà odierna ma nel conforto del vero, nella fiducia nel sogno, la Storia è cambiata.
      Se, nonostante le raffiche di un vento impetuoso e disumanizzante, la fiaccola della speranza resta accesa è perché uomini come il Nostro non hanno mai smesso di alimentarla con il proprio dolore: ben oltre il sacrificio, ben oltre la rassegnazione. E così, fino alla catarsi, fino ad una delle più alte preghiere mai lasciate da un poeta all’umanità. Da Mio fiume anche tu: “Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri, / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo Santo / Santo, Santo che soffri.”.
      Termino compendiando il suo pensiero in un’altra felicissima dichiarazione: “ciò che i poeti e gli artisti, dal Romanticismo ai giorni nostri hanno fatto. . . è immenso: hanno sentito l’invecchiamento della lingua: il peso delle migliaia d’anni che portano nel loro sangue; hanno restituito alla memoria la sua misura d’angoscia (acquisendo) il potere di darle la libertà di emancipare se stessa in quel medesimo grado che l’afferma.”.
      E, con Ungaretti, consentitemi di dire – dall’irrilevanza della mia sofferenza – : “Soltanto la poesia – l’ho imparato, terribilmente, lo so – la poesia sola può recuperare l’uomo”.
                                                                              

“Tra Mito e Storia”. Relazione del Convegno del 19 Dicembre 2011:
“Ricordanze ungarettiane – passaggio e presenza di Giuseppe Ungaretti nei Castelli Romani”.