Il filo di Rè Anna

Le mura domestiche di un modesto appartamento: la porta d’entrata, il tavolo circondato da sedie, un mobiletto con specchio e suppellettili e una confortevole sedia a dondolo al fianco di una lampada dalla luce calda per i momenti di lettura, di relax. Nulla di strano. Un semplice, ma decoroso appartamento. Eppure qualcosa di sfuggevole pervade la scena. C’è una donna su quella sedia a dondolo. Non sta leggendo. Non è in relax. E’ lì, la vediamo, ma in un certo senso non c’è. Dov’è? Si odono lamenti, profondi lamenti provenire “dall’interno” di quella donna scaturiti da un aldilà gelosamente custodito nel corpo, nel cuore, nella mente. Improvvisamente irrompe nell’appartamento un’altra donna. Sostituisce alla luce fioca della lampada la luce viva del lampadario centrale riportando la donna della sedia alla realtà, che noi tutti stiamo guardando. Realtà? A questo punto non può che balzare all’occhio l’irreale monocromatismo dell’intero luogo. Tutto è asetticamente bianco o nero, stemperato solamente da qualche tonalità di grigio. Come in bianco e nero sono i costumi delle due donne in scena e come lo saranno quelli degli altri personaggi coinvolti. Ne deriva una vaga sensazione di straniamento e di angoscia riconducibile al personaggio iniziale: Renata, donna forte e fiera, che si sta accostando alla vecchiaia. Ma qualcosa non va. Qualcosa non sta andando per il verso giusto. Renata si sta ammalando di Alzheimer. Sta succedendo velocemente. Nell’arco di tempo, un pomeriggio in tutto, in cui siamo chiamati a testimoni della vicenda, Renata perde il controllo sempre più spesso. Quel filo che la tiene legata alla realtà diviene sempre più sottile e i momenti di black out, che sembrano riportarla ad un passato buio, remoto, ma così vivo e straziante dentro di lei, sempre più frequenti. Come ovviare al destino di Renata? Tre le soluzioni proposte. Una, fredda e calcolata, arriva da Renata stessa. L’altra, ancor più crudele e distaccata, dai suoi figli, personaggi arrabbiati e privi di spessore caratterizzati interiormente dallo stesso monocromatismo dell’ambiente claustrofobico circostante, e la terza, la più auspicabile, da una misteriosa quanto candida vicina di casa, forse non entrata casualmente nella vita di Renata. Un atto unico carico di tensione, stemperata solamente dall’atteggiamento stolido e ironico di Renata, vecchia storpiata dalla malattia e dall’egoismo, interpretata senza riserve da Renata Pozzi, coraggiosa nel nascondere solarità e bellezza che invece la caratterizzano. Novanta minuti di pathos senza falsi moralismi o bigotti pregiudizi nati dalla mente di Maria Altomare Sardella, resi con gusto e sobrietà dal regista Ferruccio Giuliani, per i quali solo al pubblico è riservata l’ultima parola. 

Monica Fivizzani

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La recensione de “IL GIORNO” del 4 dic. 2008: QUI